lunedì 24 gennaio 2022

...95 milioni


(..)Il dolore cronico è una delle principali cause di disabilità e può potenzialmente intaccare tutti gli aspetti della vita. La Pain Alliance Europe, un’organizzazione che include medici esperti e gruppi di pazienti, stima che 95 milioni di persone in Europa convivono con il dolore cronico e sono regolarmente costretti ad affrontare discriminazioni e stigmatizzazioni sul lavoro e nella loro vita sociale(1).

Le implicazioni di vasta portata del dolore cronico sono state evidenziate da The Pain Proposal, un gruppo indipendente di esperti europei che ha raccolto alcune ricerche: queste dimostrano che i malati hanno sofferto di isolamento sociale, preoccupati per le relazioni personali e la perdita del lavoro, riversando tale impatto negativo su amici e familiari(2).

Questa condizione è stata rafforzata da uno studio pubblicato sullo European Journal of Pain(3) che ha rilevato l’impatto sulle persone che convivono con il dolore cronico:

Il 21% ha ricevuto una diagnosi di depressione
Il 61% era meno capace o incapace di lavorare fuori casa
Il 19% aveva perso il lavoro e il 13% lo aveva cambiato
Solo il 2% è stato trattato da uno specialista della terapia del dolore
Il 33% non ha ricevuto alcun trattamento

Il dolore è stato a lungo considerato un sintomo piuttosto che una condizione in sé, ma grazie alla campagna della Federazione Europea del Dolore, che rappresenta 20.000 operatori sanitari e ricercatori, il dolore cronico primario è stato riconosciuto in qualità di malattia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Gli esperti ritengono che l’aggiornamento della condizione potrebbe portare a un maggiore livello di prestazione per i pazienti, accelerando diagnosi e trattamenti.

Affrontare il dolore è uno dei compiti più impegnativi che i medici devono gestire, in quanto la causa e l’effetto sono ancora più labili e confusi dallo stress, provocato da quest’ultimo nei pazienti. Leslie J. Crofford, esperta di reumatologia, ha osservato: “Quando si elimina il 90% del dolore del paziente, il restante 10% è il 100% di ciò che è rimasto. Questo ci ricorda che qualsiasi dolore è ancora dolore.” Aggiunge: “Quando il dolore diventa cronico, nella maggior parte dei casi l’obiettivo consiste nella gestione piuttosto che nell’eliminazione di esso”(4).

Il complesso groviglio di sintomi fisici e psicologici derivati dal dolore cronico porta a una significativa riduzione della qualità di vita. Ma esistono trattamenti e meccanismi di supporto che aiutano a stabilizzare le condizioni; la medicina tratta ora il dolore cronico come una questione urgente. (…)

Leggi articolo originale: qui.

mercoledì 19 gennaio 2022

…la speranza come gesto di cura


Oggi voglio ripresentare un testo che scrisse il dr. Graziano Martignoni per la Rivista per le Medical Humanities nel 2016. Un testo che parla della speranza, o meglio “la cura della speranza fa della speranza un gesto di cura”.

 

“L'umanesimo clinico e l'opera della speranza

 «… poiché la Parola della Vita
detiene l’inconcepibile potere
di dare la vita, essa è un’azione,
l’azione di dare la vita, di generarla
nella nascita intemporale di ogni
vivente, di risuscitarla quando
essa non è più».
Michel Henry,
Paroles du Christ  

          La cura della speranza o la speranza come cura  

           L’umanesimo clinico parla delle forme della vita1 e prova a custodirle nel dolore e nella sofferenza della malattia. È come una sentinella della dignità della persona e della sua inalienabile singolarità. Non è tanto un modo per mettere dell’umanità nella medicina tecno-scientifica e nel suo gesto di cura, ma soprattutto è un modo per fare delle scienze della cura, proprio a partire dalla medicina «al letto del malato», soprattutto e in primo luogo una scienza dell’uomo, una vera e propria patosofia2. L’umanesimo clinico partecipa, favorisce e appartiene fondamentalmente, come se ne condividesse l’aria di famiglia, alla svolta antropologica della medicina. L’uomo, per comprenderlo, bisogna «tenerlo vicino», porsi all’ascolto del suo originario sentire-patire, non basta guardarlo, misurarlo, scomporlo nei suoi organi o farlo divenire oggetto di ricerca, bisogna accoglierlo come soggetto di desiderio e di passione. Questa la sfida dell’umanesimo clinico, qualcosa in più e qualcosa in meno delle tecniche etico-relazionali delle Medical Humanities. L’umanesimo clinico, sentinella e custode dell’opera della speranza.
           Di che cosa parliamo quando parliamo delle forme della vita? Le forme della vita dicono l’esistenza con le sue vertigini, le sue disperazioni, ma anche le sue felicità. La colgono sul crinale tra la sua inarrestabile trascendenza e l’abisso delle cellule della sua somaticità. In esse l’opera della speranza, come pratica attiva, ma anche come «bella tentazione della felicità»3, svolge un compito generativo, in cui il curante è sovente un vero e proprio «ostetrico della vita». Qui la cura della speranza fa della speranza un gesto di cura. Speranza non vuota parola, vago richiamo a un volontarismo sentimentale di facile consumo in tempi così incerti, ma richiamo alla difficoltà, alla fatica della sua cura, di una cura della speranza, che tocca a tutti noi giorno dopo giorno. Non vi sono, per buona fortuna, professionisti della speranza: la sua cura riguarda tutti. Chi è comunque chiamato, per compito professionale, a so-stare nelle vicinanze della malattia e della sofferenza dell’uomo, può/deve essere testimone della sua sempre possibile presenza, veicolo del- la sua apparizione anche dentro il presente più doloroso e oscuro. È ciò che si può riassumere con l’espressione «cura della speranza».
           La speranza, dunque, non come sentimento generico, dolcificante della vita, ma come veicolo dell’incontrarsi, che non è solamente tecnica relazionale o buona educazione, ma «stile», modo di fare, modo di porsi e di esporsi nei confronti del malato e della sofferenza. Un esporsi che è, per il curante, condivisione di quella «progressiva spoliazione»4 dell’Io, di quell’umiltà del pensare sensibile che parte dal riconoscimento della nostra stessa «claudicanza». L’incontrarsi che non è infatti riducibile a mera buona comunicazione e alle sue tecniche, non è piegabile a relazione professionale adeguata, non si lascia appiattire a semplice trasmissione di informazioni nel rispetto di quel «mitologico» paziente informato, di cui oggi tutti parlano.
           La «cura della speranza» per vivere ha bisogno di trovare spazio e tempo nel dialogo inter-soggettivo, in quel rapporto tra Io e Tu e Io-Tu-Esso di cui ci parlava Martin Buber già nel 19235, governato dal principio di reciprocità. La speranza ha però bisogno anche di luoghi di vita, luoghi della sua respirazione e della sua narrazione, che sappiano produrre non solo vita biologica, ma vivencia, come la definisce quella «pensatrice errante» che è stata Maria Zambrano6. Vivencia come legame necessario tra esistenza e senso. L’umanesimo clinico, testimone di questa narrazione, diviene qui veicolo di un’etica pubblica, che sappia costruire, custodire e costantemente rigenerare i luoghi della speranza, che hanno bisogno sempre e comunque di vivere quel Mit-sein, Io-Tu, Io-Esso, senza il quale sarebbero condannati al sartriano pratico-inerte7, condizione di inerte efficacia, in cui vivono molte istituzioni di cura, sia sociali che sanitarie.

           La speranza viene da lontano

  Viene da lontano, è quotidiana e concreta, ma è anche bagnata dal mito. La speranza, ultimo resto rimasto nel fondo del vaso di Pandora… Un giorno Zeus, il sovrano dell’Olimpo, in un tempo che non è mai stato ma che è sempre avvenuto, arrabbiato per il furto del fuoco divino da parte di Prometeo, volle punire gli uomini. Ordinò a Efesto, dio del fuoco, di creare una bellissima fanciulla di nome Pandora («pan doron», «tutti i doni») a cui tutti gli altri dei offrirono ogni sorta di virtù. Pandora venne condotta da Epimeteo («colui che riflette tardi»), il fratello un po’ sciocco di Prometeo, il quale, contro il saggio consiglio del fratello di non accettare alcun dono che provenisse dagli dei, sposò Pandora che portava con sé un vaso regalatole da Zeus stesso, che però le aveva ordinato di tenere sempre chiuso. Pandora disobbedì, la curiosità la spinse a scoperchiare il vaso dal quale fluirono nel mondo tutti i dolori e tutti i mali, come recita Esiodo «e altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini». Sul fondo del vaso rimase solo elpis, la speranza, che non volò via e rimase come ultimo dono agli uomini. È di questo piccolo dono, capace di decidere del vivere o del morire prima di morire, di dare nella bufera e nel dolore un orizzonte all’esistenza, che l’umanesimo clinico si fa custode. (…)”

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lunedì 17 gennaio 2022

...l'algodistrofia colpisce mani e piedi

(immagine dal web)

(…)"L’algodistrofia è una patologia le cui cause non sono ancora pienamente comprese accompagnata da dolore forte, bruciante alle mani o ai piedi, che non trova sollievo e che cronicizza portando il paziente a perdere le speranze di una possibile via di uscita.

“L’algodistrofia è una caratteristica sindrome dolorosa cronica, la peggiore sindrome dolorosa cronica proprio per l’entità del dolore che è legato molto spesso ad un evento scatenante che può essere un trauma significativo, un intervento chirurgico ma talvolta può anche essere qualcosa che può passare quasi inosservato” spiega il prof. Giovanni Iolascon, direttore esecutivo di SI-GUIDA.

Il dolore si focalizza al distretto polso-mano e caviglia-piede. Nella gran parte dei casi il dolore è bruciante e molto intenso. “Talvolta il paziente lo descrive come il dolore più forte che ha avuto nella propria vita e ovviamente non riconosce una causa scatenante che lo può giustificare per cui il viaggio che il paziente incontrerà per arrivare alla diagnosi è complesso e difficile perché dovrà scartare molte altre possibili patologie” ha sottolineato il prof. Iolascon.
“Ad esempio, un dolore intenso e molto più forte e duraturo di quanto ci si sarebbe aspettati subito dopo un trauma fratturativo o distrorsivo o dopo un intervento chirurgico è un fattore di rischio come anche lo sono situazioni di labilità psicologica. Ci sono delle situazioni da attenzionare come campanelli di allarme della malattia” ha proseguito il prof. Iolascon.

Il patient journey potrebbe essere decisamente migliorato con una collaborazione tra medico di medicina generale, associazione pazienti e specialisti grazie a un approccio multidisciplinare come mostrato dagli esperti presenti al live talk.

“Il problema è riconoscere la patologia ma anche il paziente deve riconoscerla; per questo è importante fare informazione perché la persona che ha dei sintomi se riesce a riconoscerli e ad esprimerli in maniera corretta e per tempo faciliterà anche il medico nella diagnosi” ha evidenziato Antonella Celano.
Finchè non si arriva a una diagnosi certa, il dolore del paziente e l’infiammazione vanno gestite attraverso farmaci antidolorifici e anti-infiammatori ma a diagnosi certa bisogna iniziare velocemente la terapia con il neridronato che ha rivoluzionato l’approccio alla malattia.

Il neridronato è un aminobisfosfonato che nell’algodistrofia esercita un’azione terapeutica interferendo con le cellule infiammatorie che si accumulano nel sito di malattia. Il neridronato è tra l’altro l’unico bisfosfonato con indicazione per il trattamento dell’algodistrofia. Oggi è possibile utilizzare tale trattamento non solo con cicli di infusione endovenosa, ma anche con iniezioni intramuscolari per una cura efficace e gestibile a casa.

Alla terapia farmacologica può essere abbinato un trattamento fisico-riabilitativo che si occupa più del paziente che della malattia in un approccio multimodale considerando che il dolore ha un effetto anche a livello cerebrale centrale per cui ci sono tecniche che si basano sulla riorganizzazione la corteccia cerebrale. È inoltre fondamentale il movimento che va dosato a seconda dell’intensità del dolore."

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sabato 15 gennaio 2022

...un libro per i professionisti che si occupano di dolore

È importante per noi pazienti conoscere la nostra patologia, ma è ancora più importante per i medici e tutti gli altri professionisti della salute, padroneggiare la materia DOLORE in tutti i suoi aspetti.

Questo "Manuale di Medicina del Dolore" scritto dal Prof. med. Paolo Marchettini, nostro ospite d'onore al convegno di fine settembre, è un libro di testo utilizzato abitualmente per l'insegnamento di questo argomento molto complesso e ampio. È scritto in modo comprensibile, molto approfondito, corredato da esempi, tabelle, figure anatomiche, e molto altro. Si spazia dal dolore centrale al periferico, dal dolore vertebrale al neoplasico e metastatico, dal dolore cronico in tutte le sue forme, senza dimenticare l'ultimo importante capitolo delle terapie farmacologiche ma non solo.

Per darvi un'idea del contenuto, cliccando qui potete leggere l'indice dei capitoli.

L'ho letto per voi, e ve lo consiglio caldamente, anche a tutti coloro che già hanno acquisito certi concetti. Rinfrescarli fa sempre bene.

Si può ordinare in qualsiasi libreria, al costo su per giù di una trentina di franchi.

Buona lettura!