 |
(immagine dal web)
|
Le
difficoltà che si riscontrano nella vicina penisola, sono le stesse che si
riscontrano anche in Ticino. Quante donne si vedono incolpate, etichettate come
depresse, il dolore sminuito dal medico. Tutto per qualcosa che non dipende da
loro. La vulvodinia esiste, così come esiste il nervo pudendo. E quando brucia,
fa molto male.
“Sembra
assurdo, infatti, che una malattia che colpisce il 15% della popolazione
assegnata femmina alla nascita sia passata per anni inosservata e sottodiagnosticata,
persa nelle carenze della medicina territoriale e nell’arroganza della medicina
specialistica.” Scrive
l’autrice dell’articolo che riportiamo qui di seguito per intero. E cerca di spiegarne
le cause.
“La vulva in fiamme
Martina
Carpani – articolo del 12 Gennaio 2022
La
campagna per il riconoscimento della vulvodinia mette in discussione i
paradigmi biomedici della medicina patriarcale e indica la malattia come un
potente terreno di lotta
Nel
dibattuto sul ruolo della medicina che ha infuocato i talk show e i social network
negli ultimi anni pandemici, è stata lasciato poco spazio al punto di vista
diretto di chi vive l’esperienza di una malattia cronica e prova sulla propria
pelle i limiti della medicina e le disuguaglianze del Sistema sanitario
nazionale.
Il
23 ottobre dello scorso anno il movimento femminista Non Una Di Meno ha portato
in piazza la campagna «Sensibile-invisibile», nominando per la prima volta
nello spazio pubblico parole tabù e discriminazioni abiliste, di genere e di
classe vissute da chi si confronta giornalmente con vulvodinia, endometriosi e
fibromialgia. Il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, animato dalle
associazioni di pazienti e dal personale medico-sanitario, ha avviato
contestualmente una campagna politica per promuovere il riconoscimento della
vulvodinia nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario
Nazionale, al fine di garantire tutele sanitarie, economiche e lavorative a
tutte le persone che ne soffrono.
Spesso
questo tipo di lotte sono declassate a battaglie di retroguardia poco
generalizzabili e poco interessanti, se non per solidarietà – e a tratti
pietismo – verso le donne e le persone amiche che ne soffrono. Invece,
utilizzando la pratica femminista che rende il personale politico e facendo lo
sforzo di eliminare la lente abilista che oscura il nostro sguardo – ossia la
convinzione-norma che tutte le persone siano «sane» e abbiano un corpo abile,
da cui deriva la prassi di considerare «eccezione» e dunque soggetto
discriminabile tutte le persone che non lo sono – è possibile analizzare quanto
sia politica e attuale l’esperienza «sociale» di una malattia sotto diagnosticata
che coinvolge 1 donna o persona con vulva ogni 7 e che rappresenta un esempio
vivo di come mettere a critica la medicina, pur rivendicando con forza il
servizio pubblico.
Cinquant’anni
fa, nel pieno dei moti femministi, faceva il giro del mondo il libro Our
Bodies, Ourselves del Boston Women’s Health Book Collective, scritto dalle
donne per le donne, che ha portato migliaia e migliaia di donne in tutto il
mondo a riappropriarsi delle conoscenze sul proprio corpo e a iniziare una
feroce critica alle istituzioni della medicina patriarcale, grazie a una
dialettica virtuosa tra saperi di natura scientifica ed esperienze delle donne.
Scrivono le autrici:
Fu
per noi un’esperienza politica fondamentale: scoprire che non disponevamo di
quasi nessun controllo sulla nostra vita e il nostro corpo; uscire
dall’isolamento per imparare l’una dall’altra le cose di cui avevamo bisogno;
sostenerci reciprocamente nel chiedere i cambiamenti che il nostro nuovo
atteggiamento critico indicava come necessari. In quel momento abbiamo preso
coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di
operare cambiamenti.
Da
quel momento a oggi, molto è certamente cambiato, ma sul corpo delle donne
esiste ancora un grande problema culturale, tanto da renderlo ipersessualizzato
e al contempo costantemente negato. L’antropologa femminista Christine Labuski
nel suo It hurts down there, the bodily imaginaries of female genital pain
racconta che tutte le donne con vulvodinia che hanno varcato la porta dello
studio medico in cui ha svolto la sua ricerca non abbiano mai usato le parole
«mi fa male la vulva». La percezione è che manchino le parole giuste per
descrivere il dolore, non solo nei manuali degli studi medici, ma anche e
soprattutto nelle nostre vite di donne e persone con vulva. È anche questa una
delle tantissime conseguenze negative dell’assenza di un’educazione sessuale e
di un’educazione al corpo che non deleghi solo al personale medico il
riconoscimento dei sintomi: non renderci capaci di capire e percepire il nostro
corpo in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle dolorose.
Bruna
Orlandi nel suo libro Nonostante, libera. narra la sua storia di vulvodinia
esordendo con queste parole: «Parlerò della vulva per emanciparla dal falso
mito che la ammanta e la vede solo come portatrice di piacere. Come ogni parte
del corpo può far male, ammalarsi ed essere curata, tuttavia è ad alto indice
di sconvenienza sociale manifestarne il dolore».
La
vulvodinia è, infatti, una malattia cronica imprevista sia dal punto di vista
medico che dal punto di vista sociale, definita in letteratura come dolore
vulvare che si protrae per oltre tre mesi. Si presenta con sintomi di tipo
spontaneo o provocati dal contatto, quali bruciore, sensazioni di spilli,
scosse elettriche e lacerazioni, spesso accompagnata da contratture del
pavimento pelvico e da una sofferenza del nervo pudendo.
In
medicina è considerata una tra le cosiddette «contested illnesses» che sfidano
il paradigma biomedico positivista. La diagnosi avviene per esclusione da altre
patologie, attraverso il cosiddetto «swab test», grazie al quale, praticando
pressione con un cotton fioc, si verifica la presenza di un dolore intenso
anomalo, riconoscendo la sola esperienza di dolore della persona come prova
inconfutabile dell’esistenza del dolore stesso. Gran parte del personale
medico-sanitario non solo non è formato per diagnosticare questa patologia, ma
– come accade per la fibromialgia – ne mette in discussione la stessa
esistenza, nonostante la larga diffusione e il riconoscimento nella letteratura
medica internazionale, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il
racconto portato in piazza e diffuso sui social da tantissime è quello di anni
di totale invalidazione dei sintomi da parte del personale medico. Ciò è,
infatti, diretta conseguenza del paradigma positivista biomedico che non
riconosce il dolore senza causa organica o le sue manifestazioni fuori dallo
«standard» e che, pur di non aprirsi a una crisi epistemologica, scarica
violentemente su di noi i propri limiti sotto forma di colpa individuale,
usando l’espediente della critica ai nostri stili di vita per mettere in
discussione l’esperienza soggettiva del dolore. La lista di «è tutto nella tua
testa», «per le donne è normale soffrire» e «sei stressata ultimamente?» che ci
siamo sentite dire non è un caso, ma conferma che la medicina patriarcale
utilizza una lente sessista per formulare diagnosi e ipotesi mediche, svaluta e
discredita il dolore delle donne, costantemente normalizzato come «castigo di
genere» o «eccesso di fragilità».
In
realtà, sebbene la causa della vulvodinia non sia univocamente determinata, è
stato individuato un ventaglio di possibili eventi – o cluster – di diversa
natura che innescano una percezione alterata del dolore, tra i quali anche
quello psicosessuale. Secondo le maggiori ricerche, l’eventuale origine
psicosomatica del dolore, anche quando presente, non giustifica in nessun modo
l’approccio medico che nega la sua esistenza e che costituisce invece una
manifestazione della violenza di genere istituzionale. Anzi, secondo i maggiori
studi, tantissime donne vivono depressione, ansia e altre conseguenze psicologiche
come conseguenza e non come causa della malattia, proprio a causa di anni di
soprusi e dolore non riconosciuto, sia dai medici che dalla società.
La
storia clinica di centinaia e centinaia di donne rifiutate dalle istituzioni
sanitarie come «moderne isteriche», dimostra quindi come la propaganda della
«iper-razionalità» medica, esemplificata da alcuni tristemente noti divulgatori
scientisti che si sono distinti anche in questi anni di pandemia, non sia solo
profondamente errata, ma soprattutto facilmente riutilizzabile a danno dei
soggetti marginalizzati, sui cui corpi non esiste adeguata ricerca medica, in
quanto – parafrasando Johanna Hedva ne La teoria della donna malata – non
conformi all’inarrivabile paradigma di salute abile, bianco, non stressato e
benestante costruito dalla nostra cultura.
Secondo
Vulvodinia Online, la vulvodinia ha un ritardo diagnostico medio di quattro
anni e mezzo ed è diagnosticata dopo aver consultato diversi specialisti. In
questo limbo, la maggiore fonte di informazione in merito alla malattia è lo
spazio virtuale, unico luogo dove il dolore viene legittimato e trova un nome.
Grazie ai gruppi social e ai siti web delle associazioni, tantissime scoprono
l’esistenza della parola «vulvodinia» e iniziano la sfilza stressante di visite
presso i pochissimi specialisti formati e consigliati da altre donne, quasi
tutti nel settore privato e con un anno di lista d’attesa. Internet, lo stesso
luogo messo alla gogna dall’opinione pubblica per la diffusione di informazioni
sbagliate in ambito medico, risulta in questo caso uno spazio fondamentale di
autodifesa dal gaslighting medico, poiché rappresenta – nel pieno delle sue
ambiguità e dei suoi rischi – l’unico spazio di conoscenza accessibile per le
persone malate tagliate fuori dalla sanità pubblica e dalle fonti di conoscenza
«ufficiali».
Questa
esperienza diretta di migliaia di donne rappresenta un forte squarcio nella
narrazione della medicina come divulgabile solo «dagli addetti ai lavori» che
non va affatto in una direzione «antiscientifica». Rivendicare la medicina come
scienza non esatta e non neutra, le conoscenze sulla salute come saperi
collettivi e non elitari, l’esperienza dei nostri corpi come parte fondamentale
e attiva del processo di costruzione del sapere medico, darsi occasione di
riconoscerci tra pari, ognuna nei sintomi dell’altra, scambiarsi conoscenze per
poter diminuire il rapporto di potere medico-paziente non significa aprire uno
spazio «antiscientifico», ma riaprire un processo virtuoso che viene dalla
tradizione dell’autocoscienza femminista e che considera la medicina come un
sapere necessariamente aperto e fondato sull’integrazione tra saperi di natura
diversa, tra i quali sicuramente l’esperienza del corpo.
Se
i consultori fossero ancora il luogo autonomo di produzione di saperi
femministi, di sensibilizzazione pubblica e di raccolta dei bisogni di cura di
donne e persone con vulva per cui sono nati, potrebbero essere il luogo di
confronto dialettico tra le istituzioni mediche e i processi di mutuo aiuto e
produzione di saperi sulla salute elaborati dalle donne e dalle soggettività
dissidenti. Oggi, invece, mancano luoghi, strumenti e processi di apertura del
sapere medico alla società, che integrino le conoscenze scientifiche con le
ricerche antropologiche e sociologiche e con i processi di raccolta dei bisogni
di cura, che orientino le priorità di ricerca in base ai bisogni sociali e a
criteri diversi dal profitto. Sembra assurdo, infatti, che una malattia che
colpisce il 15% della popolazione assegnata femmina alla nascita sia passata
per anni inosservata e sottodiagnosticata, persa nelle carenze della medicina
territoriale e nell’arroganza della medicina specialistica.
A
seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le associazioni di
pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria per accedere
all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o
fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli, che
corrispondono a una spesa mensile pari a quasi il 20% dello stipendio netto
medio di una lavoratrice dipendente. La cura è dunque un percorso a ostacoli
particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne
bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime
difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km
dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate,
precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla
cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è
attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.
C’è
urgenza che tutto questo cambi, perché, anche se di vulvodinia non si muore,
con la vulvodinia non si vive. In un mondo che fa scandire all’abilismo i ritmi
del lavoro produttivo e riproduttivo, poter ascoltare il dolore del proprio
corpo e il livello del bruciore spontaneo delle proprie vulve è un privilegio
incompatibile con la maggior parte degli impieghi e del carico di lavoro
domestico. L’imprevisto dolore alla vulva non dà diritto alla malattia, né al
riconoscimento di percentuali di disabilità, neppure per chi di noi ha fitte
spontanee lancinanti, anzi, spesso richiede di iniziare un secondo lavoro per
poter sostenere il costo delle cure.
Inoltre,
il fatto che la malattia colpisca proprio la vulva, rappresenta un imprevisto
sociale in una società fondata su relazioni sessuali e romantiche ancora troppo
ancorate al modello patriarcale. Per molte donne cis, specialmente
eterosessuali, vivere la vulvodinia significa fare i conti con lo stigma causato
dall’impossibilità di aderire alle norme di genere della cultura patriarcale
dominante, vuol dire sentirsi «donne rotte», «donne inadeguate», «donne a
metà», come raccontano le ricerche sociologiche che parlano di vulvodinia.
Come
cinquant’anni fa, dunque, oggi diverse generazioni di vulvodiniche si sono
accorte di non sapere ancora abbastanza del proprio corpo, di subire
collettivamente ingiustizia e abusi di potere. Elaborando il ruolo di «soggetto
imprevisto», donne con la vulva in fiamme rivendicano la propria esistenza
medica e sociale, la propria espressione erotica e la propria desiderabilità
nonostante la malattia. Grazie alla sorellanza e a esperienze di mutuo aiuto,
gruppi di malate rivendicano l’altalenarsi del proprio stato di salute e del
proprio stato emotivo senza autogiudizio, rifiutando quella «cultura del
dolore» socialmente costruita e rafforzata dai media, che non lascia spazio
alle micro-resistenze quotidiane ma rafforza solo narrazioni pietistiche della
malattia. Soprattutto ancora oggi sperimentano il potere di unire insieme i
corpi malati – con forme e modalità compatibili con lo stato del dolore – nella
lotta, con l’urgenza di pretendere la gratuità delle cure per tutte, formazione
medica obbligatoria sui nostri corpi e un centro pubblico specializzato in
dolore pelvico in ogni Regione, per lanciare un j’accuse alle istituzioni
mediche patriarcali ed alla «cultura dell’essere sani».
Nelle
contraddizioni della medicina e della cura istituzionale, in una pandemia
globale la cui gestione appare scaricata sempre più sulle persone che hanno
corpi più esposti alle potenziali conseguenze avverse del long Covid, la
malattia è uno spazio politico poco esplorato che andrebbe politicizzato
ardentemente, sia per far emergere le contraddizioni del sistema capitalista,
sia per rivendicare con ancora più forza l’accesso universale alle cure. Per
dirla con Johanna Hedva: «Non avete bisogno di essere aggiustate, mie regine: è
il mondo che ha bisogno di essere rifatto».
*pur
conscia che tanti uomini trans e tante persone non binarie soffrono di
vulvodinia come me, in questo articolo ho scelto di utilizzare il femminile
universale e di riferirmi alle donne, in linea con la mia esperienza soggettiva
di malattia, grazie alla quale ho riconosciuto con ancora più urgenza la
necessità di mettere al centro il mio posizionamento situato. La mia esperienza
non ha la pretesa di essere assoluta e sarei felice di metterla in dialogo con
quella di altre soggettività.
Martina
Carpani, attivista in Non Una di Meno e malata cronica, si occupa di giustizia
riproduttiva e salute in ottica
femminista e intersezionale”
Articolo
originale: leggi qui.