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sabato 19 giugno 2021

...come guarire dal dolore cronico

 
 
In questo breve video, sono riassunti tutti i passi per migliorare la propria qualità di vita quanto si è affetti da dolore cronico. Questo è l'approcio che tutti noi di Filo di Speranza applichiamo a coloro che si affidano a noi. 

Guarire è un percorso lungo, ma ce la si può fare. 

Anche laddove il dolore vi affligge da anni, e non vi illudete più di poter stare meglio, noi possiamo aiutarvi. 

Per informazioni e un primo contatto, la nostra hotline è 078.325.03.63.

PS: il video è in inglese, però sotto impostazioni potete attivare la traduzione automatica in italiano.
 


venerdì 11 giugno 2021

...parola agli esperti

(Ileana Luglio)

Riportiamo qui di seguito una bella intervista che la nostra operatrice Ileana Luglio ha rilasciato alla redazione di vulvodinia.online, sito web dell’Associazione Italiana Vulvodinia onlus.

“Ogni individuo dovrebbe avere il diritto di poter scegliere liberamente come vivere la propria condizione. Alle donne vulvodiniche questa libertà non è concessa, pena la totale invisibilità della patologia agli occhi di medici e istituzioni. Un sacco di donne e ragazze si stanno mobilitando attraverso varie iniziative per garantire che si parli sempre più spesso di questa patologia. Questa campagna nasce per aiutarle affinché la vulvodinia sia riconosciuta e sia garantito a tutte il diritto alla cura.”

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Le contratture del pavimento pelvico: cosa sono e come la fisioterapia può aiutarti nella risoluzione delle sindromi da dolore pelvico cronico

La vulvodinia, così come le altre sindromi da dolore cronico, è spesso correlata a problematiche muscolari. I muscoli reagiscono al dolore contraendosi: è un meccanismo di difesa naturale. Il mantenimento di una contrattura sul lungo periodo risulta però nocivo per i tessuti circostanti: un muscolo perennemente contratto non è un muscolo sano.

Se la contrattura è dovuta a un’infiammazione, come quella alle fibre nervose periferiche nel caso della vulvodinia, si instaura un circolo vizioso in cui l’infiammazione genera la contrazione e la contrazione a sua volta non facilita la remissione dell’infiammazione.

Un trattamento fisioterapico può aiutare a rompere questo circolo vizioso.

Scopriamo insieme alla Dottoressa Ileana Luglio, fisioterapista esperta in riabilitazione pelvi-perineale e osteopata, in che modo il ruolo del fisioterapista si affianca a quello di altri specialisti nella risoluzione di diverse patologie ginecologiche.

(Domanda): La figura del fisioterapista è sempre più spesso accostata al trattamento di patologie ginecologiche. Qual è il suo ruolo in questo approccio combinato?

(Risposta della Dott.ssa Luglio): Da fisioterapista e osteopata mi occupo da anni delle disfunzioni del pavimento pelvico e in particolare delle problematiche legate al dolore pelvico, quindi di una serie di disturbi come la vulvodinia, la sindrome della vescica dolorosa, le disfunzioni ano-rettali e altre patologie che causano stati dolorosi e che sono spesso correlate all’apparato fascio-muscolo-scheletrico e nervoso e qui l’anello di congiunzione con la fisioterapia e il motivo per cui quest’ultima è così importante nel trattamento di queste patologie.

Il ruolo del fisioterapista è quello di occuparsi del dolore miofasciale (muscolare) e la zona pelvica è ricca di strutture miofasciali. Queste strutture sono in relazione con gli organi presenti in quella sede come la vescica, l’uretra, la vagina, la vulva e il tratto retto-anale ed è spesso da questi organi che partono i segnali che vanno poi a influenzare i muscoli e viceversa.

Perché la terapia manuale è così importante?

Perché la valutazione palpatoria di una mano esperta permette di riconoscere le asimmetrie muscolari, le densità tessutali, i punti dolorosi. Permette inoltre di individuare se ci sono restrizioni di movimento, di percepire la risposta tissutale alle sollecitazioni in compressione e/o in trazione. Per risposta dei tessuti intendo la reazione dei tessuti miofasciali propria della biomeccanica del muscolo.

Praticamente attraverso la terapia manuale è possibile valutare la salute dei muscoli.

Per dirla con parole semplici, ci sono delle caratteristiche intrinseche del tessuto muscolare che il fisioterapista è in grado di individuare, ad esempio la resistenza del muscolo nel momento in cui si applica una compressione o una trazione; oppure l’elasticità che è la caratteristica che permette ai tessuti di ritornare alla forma iniziale una volta cessata la sollecitazione. La caratteristica intrinseca opposta all’elasticità è la plasticità che è la proprietà biomeccanica del tessuto che permette di mantenere il cambiamento che il muscolo subisce durante il trattamento.

Queste caratteristiche intrinseche delle fibre muscolari costituiscono le proprietà viscoelastiche del muscolo.

Le mani sono lo strumento con cui la valutazione di queste proprietà viene effettuata, ma per una valutazione completa, alle mani occorre abbinare anche la testa e il cuore.

La terapia manuale, utilizzando tecniche precise, fini, adeguate permette di veicolare informazioni al cervello della paziente.

Mi piace citare questa frase di San Francesco d’Assisi, a tal proposito: “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista”.

L’efficacia della terapia manuale è stata anche dimostrata in un articolo del 2001 per il trattamento della sindrome della vescica dolorosa. La tesi dimostrata nell’articolo è che le contratture (dette anche trigger points) non solo provocano dolore e aumento della frequenza minzionale ma sono anche la causa dell’infiammazione neurogena della vescica.

Ecco perché anche il fisioterapista subentra nella presa in carico di queste problematiche che, sottolineo, richiedono sempre un approccio multimodale e quindi la collaborazione attiva di diverse figure sanitarie.

La terapia manuale, fa parte di un percorso fisioterapico che non si deve limitare solo a trattare la zona dove si manifestano i sintomi, ma occorre tenere conto anche dei relativi compensi.

Ogni individuo è uguale solo a se stesso e assume una varietà di adattamenti posturali soggettivi.

Pertanto il trattamento non può essere standardizzato perché ognuno presenta adattamenti differenti ed è evidente, quindi, quanto sia importante trattare queste disfunzioni agendo nella più totale globalità, al fine di eliminare sia il dolore che la causa del sintomo.

 La peculiarità del fisioterapista è quella di spaziare in una vasta possibilità di approcci nell’ambito della riabilitazione in base alla propria formazione e al continuo aggiornamento. Lavorerà per raggiungere vari obiettivi tra cui l’eliminazione dei fattori di predisposizione e mantenimento della problematica, il riapprendimento delle normali funzioni neuromuscolari, il ripristino di un adeguato livello di efficienza fisica e fornirà alla paziente i mezzi per controllare autonomamente i propri disturbi mialgici.

(immagine dal web)

 

Cosa comportano le disfunzioni del pavimento pelvico?

Portano a disfunzioni dell’apparato urologico, genitale e gastrointestinale.

Durante la valutazione muscolare possiamo riscontrare delle caratteristiche tipiche di diverse disfunzioni. Queste condizioni portano a un “underactive pelvic floor”, ovvero a un pavimento pelvico che non si contrae volontariamente, oppure a un “overactive pelvic floor” ovvero un pavimento pelvico che non si rilassa e questa condizione è spesso causa di dolore. Oppure ancora a un “inactive pelvic floor ” in cui non c’è contrazione né volontaria, né riflessa.

Sono tutte condizioni in cui la muscolatura non si comporta in maniera funzionale, fisiologica.

In relazione alle problematiche pelviche si cita spesso il muscolo elevatore dell’ano ma il pavimento pelvico è un’area muscolare molto complessa e non sempre il responsabile del dolore è un unico muscolo, ci sono circa venti muscoli da valutare e trattare in maniera precisa e specifica.

Potrebbe spiegarci cos’è un trigger point e come si origina?

Il trigger point è un sinonimo di contrattura: è un fascio di fibre muscolari che rimane contratto involontariamente.

Per semplicità, i muscoli quando si contraggono si accorciano e quando si rilasciano si allungano. Ma ogni muscolo è composto al suo interno da diverse fibre.

Potremmo immaginarle come delle corde affiancate una all’altra.

Fin quando si muovono in maniera coordinata non c’è problema, ma nel momento in cui all’interno di un muscolo, una o più di queste corde si accorcia rispetto alle altre, ovvero rimane contratta, forma come dei nodulini individuabili al tatto. Questi sono i trigger points.

Le contratture possono avvenire in tutti i muscoli anche in risposta a un’infiammazione, oppure a una continua sollecitazione.

In soggetti predisposti o con problematiche posturali queste contratture si formano più facilmente; se i muscoli rimangono a lungo in contrazione alimentano il risaputo meccanismo contrattura-dolore.

Ma come si è già accennato in genere non è mai un unico muscolo a essere il solo coinvolto nella contrattura, perché lo stato di ogni muscolo influenza i muscoli e i tessuti vicini: se la contrattura è grande o è vicina a un nervo/vaso è normale che ne sia influenzato anche il sistema nervoso e quello circolatorio. Se i muscoli contratti sono vicini all’uretra, influenzeranno sia quella che la mucosa e la cute.

Ma capita anche che le contratture dei muscoli irradino il dolore a distanza rispetto alla posizione del muscolo. Ad esempio, il muscolo otturatore interno, più distante dalla vagina, irradia dolore anche nella zona uretrale.

Tornando alla vulvodinia, quand’è la prima volta che ne ha sentito parlare?

La prima volta è stata nel 2008 a un congresso a Venezia, l’ “International Pelviperineology Congress”.

Nel 2010 ho iniziato a frequentare dei corsi sul dolore pelvico, anche se avevo iniziato la formazione in campo pelvico già dal 2002 occupandomi di problematiche quali incontinenza e prolassi.

E come ha iniziato a interessarsi e a lavorare con le pazienti vulvodiniche?

Ho iniziato grazie a un neurologo che mi ha fatto appassionare nuovamente alla neurologia. In questo ambito la parte neurologica è fondamentale e complementare a quella fisioterapica.

Oltre al dolore, ci sono altri sintomi che la contrattura comporta nella vulvodinia?

Può comportare ridotta elasticità muscolare, segni e sintomi neurovegetativi come l’alterata irrorazione sanguigna nella zona interessata e l’alterata secrezione di muco vaginale.

Molte donne avvertono una maggiore tensione muscolare generale in risposta a tensione emotiva e traggono benefici in attività che aiutano a rilassare il corpo come lo yoga, il training autogeno o la mindfulness. Pare che queste attività aiutino anche a tenere sotto controllo i sintomi della vulvodinia. 

Secondo il suo parere, quanto è importante il fattore emotivo in questa patologia?

Il fattore emotivo è importante perché il dolore è una percezione cosciente, sensoriale.

Uno stimolo, di qualunque tipo esso sia, viene interpretato dal sistema nervoso, ma anche dal sistema ormonale e immunitario. Le vie che arrivano all’area corticale deputata al dolore vengono mediate dal sistema limbico, che è un insieme di strutture complesse che elaborano le emozioni. I due sistemi si influenzano costantemente.

In che modo riescono a influenzarsi? Ci può fare un piccolo esempio?

La proiezione dei segnali dolorosi che arriva al sistema limbico sta alla base dell’effetto che ha il dolore sullo stato d’animo (il dolore rende irrequieti e tristi). Tuttavia, il sistema limbico influenza anche la percezione cosciente del dolore: chi è euforico o sotto choc non sente dolore. Viceversa chi è ansioso avverte il dolore in maniera più accentuata.

Una caratteristica fondamentale tipica sia delle sindromi di dolore muscolo-scheletrico persistente che in quelle di dolore pelvico cronico è la presenza di sensibilizzazione centrale e di sensibilizzazione periferica che sono fenomeni fisiologici e presenti nel breve termine, ma che quando persistono nel lungo termine portano ad un processo di maladattamento neuronale e quindi alla cronicizzazione dell’esperienza dolorosa.

Quello che succede è che una lunga esperienza di dolore fa sì che i nervi periferici interpretino gli stimoli non nocicettivi (quindi gli stimoli non dolorosi, come il contatto con un oggetto innocuo) come se fossero stimoli dolorosi, abbassando la soglia di attivazione. Questo causa iperalgesia ovvero una sensazione dolorifica spropositata rispetto allo stimolo.

Sempre più spesso nella gestione del dolore cronico si prende in considerazione il modello Fear Avoidance Model ovvero il Modello della Paura e l’Evitamento. Una persona che sperimenta episodi ripetuti di dolore ad un certo punto si troverà davanti ad una scelta tutte le volte che dovrà affrontare quelle attività che possono provocare il dolore o addirittura soltanto ricordare il dolore: sperimentare nuovamente il dolore oppure evitare quella situazione e tutto ciò che comporta? E la scelta, in genere, ricade su quest’ultima: è così che una persona inizia a evitare ogni situazione che le comporti dolore.

Il processo di evitamento però svilupperà una sorta di disabilità perché comporterà una diminuzione di quelle che sono le attività quotidiane e svilupperà kinesiofobia, ovvero la paura di movimenti ritenuti pericolosi. Questo porterà la paziente in un vortice di frustrazione, depressione per le attività che ha dovuto sospendere. Inoltre ci sarà anche un peggioramento delle qualità biologiche dei tessuti che vengono sempre meno utilizzati.

Riguardo al movimento in senso più ampio, che peso ha lo sport nelle donne che soffrono di vulvodinia?

L’attività fisica è parte essenziale sempre, anche nel trattamento del dolore miofasciale.

Ma è molto importante fare un’attività adatta alla persona. Questa attività deve essere concordata dagli specialisti da cui si è seguite e dall’istruttore. Inoltre, deve essere consona al periodo del trattamento.

Si deve iniziare sempre gradualmente: la paziente deve essere consapevole che non potrà cominciare in maniera eccessiva. Si deve capire quali sono gli esercizi che aumentano il dolore nel proprio caso. Si deve imparare a rilassare i muscoli e in particolare si deve imparare a rilassare il pavimento pelvico durante la sessione di allenamento o alla fine della sessione di allenamento attraverso degli esercizi opportuni.

(immagine dal web)

 

Ci sono tecniche o sport che sconsiglierebbe a chi soffre di una contrattura del pavimento pelvico?

La bicicletta e l’equitazione non sono il massimo, perché causano compressione e sfregamento nella zona vulvare e sulle tuberosità ischiatiche.

Ma in generale, ogni sport va valutato e contestualizzato in base alla persona e all’evoluzione della problematica. Anche Pilates fatto in modo non intelligente può essere non adatto, ma con la giusta consapevolezza e padronanza è una disciplina che si può fare.

Quello che è importante è integrare all’esercizio fisico, qualunque esso sia, il rilasciamento mirato dei muscoli del pavimento pelvico.

Cosa intende per Pilates fatto in maniera non intelligente?

Il metodo Pilates che propongono oggi è spesso eseguito in maniera non corretta. Il Pilates originale è un metodo atto a riattivare le restrizioni articolari e le restrizioni muscolari. È un insieme di tecniche personalizzate e contestualizzate in base ai problemi dei singolo individuo.

Oggi in un normale corso di Pilates ci sono troppe persone seguite da un unico istruttore e questo costituisce un limite per chi ha delle problematiche particolari. 

Ci sono attività che vanno bene un po’ per tutte?

Camminare fa bene, favorisce la circolazione. Fare almeno una camminata di 40 minuti al giorno può essere di aiuto perché si attiva il meccanismo delle aree corticali legate al dolore e alle emozioni.

Questi meccanismi studiati dalle neuroscienze stanno alla base della comprensione del legame tra dolore e emozioni.

Una vulvodinica si sente spesso ripetere “è tutto nella tua testa” ma non è corretto. Non nel modo in cui si intende questa frase.

Ci sono ragioni neurofisiologiche ben precise dietro la percezione del dolore e di quanto la componente emotiva incida su tale percezione.

C’è qualcosa in particolare che consiglia alle sue pazienti per aiutarle a maturare la consapevolezza sulla vulvodinia?

Cerco di spiegare chiaramente la situazione in cui la paziente si trova. L’educazione sulle cause del dolore è importante perché le informazioni migliorano l’aderenza al trattamento e sono alla base dell’autogestione. Spiego che l’approccio medico integrato è importante ma è tanto importante anche la collaborazione della paziente. La paziente è la protagonista principale e ci deve mettere tanto del suo.

Il trattamento dei muscoli pelvici è solo una parte della gestione del dolore.

Parlando dell’aspetto sociale, a suo parere quale sarebbe la chiave di volta che aiuterebbe le donne affette da vulvodinia?

Questa intervista è un risvolto sociale, quello che fate voi con l’associazione e con il sito è molto importante. È importante mirare a obiettivi semplici e possibili.

Sicuramente è importantissima la diagnosi precoce.

La chiave vincente per ogni donna sarebbe quella di essere seguita da un team di professionisti che conoscono la problematica ma non esistono tanti team integrati a questa maniera attualmente.

Però diversi professionisti che hanno l’umiltà (e l’umanità) di ammettere i propri limiti vengono in aiuto delle pazienti collaborando attivamente con le altre figure mediche.

Ha un messaggio di incoraggiamento da dedicare alle donne che soffrono di vulvodinia?

Vorrei citare loro un proverbio marocchino: “Tutto nasce piccolo e poi cresce, solo il dolore nasce grande e poi diventa piccolo”.

Ci sembra al tempo stesso un buon consiglio e un buon augurio, grazie!

Leggi articolo sul sito di vulvodinia.online: clicca qui


venerdì 30 aprile 2021

...sinergia tra terapia antalgica e riabilitativa

Articolo apparso sull’Organo ufficiale della Associazione Italiana per lo Studio del Dolore, 

Dolore – aggiornamenti clinici n. 2-4-2013

"Sinergia tra terapia antalgica e riabilitativa. Dolore lombare e sindromi correlate.

Un giovane medico, socio AISD, nostro cronista al Congresso di Verona - Alexandre Forneris. Roma

Abbiamo chiesto a un giovane medico specializzando, socio AISD al primo anno di anestesia e rianimazione e al suo primo convegno sulla terapia del dolore, di raccontarci qualcosa che lo avesse particolarmente interessato del Congresso AISD di Verona, per guardarci anche noi con occhi nuovi. In questo articolo ci presenta i punti salienti della relazione di medicina riabilitativa, curata dal dottor F. Zaina. Ha scelto questo tema perché il primo reparto che ha frequentato durante i sei anni di medicina è stato di medicina riabilitativa e qui ha appreso quanto sia importante e affascinante studiare i rimedi per curare il dolore dei malati.

La lombalgia viene definita come un dolore e una limitazione funzionale compresa tra l’arcata costale e le pieghe glutee inferiori, che può eventualmente irradiarsi posteriormente alla coscia ma non oltre il ginocchio. Questo dolore può causare diversi gradi di disabilità. Il termine “lombalgia” nasce dalla definizione di un sintomo, ma nel tempo ha acquisito una concezione differente, che va a definire un vero e proprio quadro clinico. Tale cambiamento è probabilmente legato all’incapacità di inquadrare questa malattia, soprattutto da un punto di vista eziopatogenetico. Nell’80% dei casi, infatti, non è possibile indicare con chiarezza quale sia la causa scatenante. Il modello di riferimento attuale della lombalgia distingue tre forme: una acuta, che è una patologia essenzialmente fisica, legata a un danno biologico che dura non oltre 4 setti-mane; una forma cronica che è definita come una patologia di tipo biopsicosociale, ovvero al problema fisico si aggiunge una serie di disagi psicologici e di limiti sociali, trasformando il semplice problema fisico in un problema più vasto e di diversa natura. Inoltre per essere definita tale, deve avere una durata superiore 3 mesi. È tuttavia in corso un dibattito circa la durata, poiché studi più recenti mostrano che 6mesi rappresentano probabilmente il lasso di tempo che meglio si correla con il suo sviluppo. La fase di transizione tra questi due quadri viene definita lombalgia subacuta: ne fanno parte le lombalgie di durata superiore alle 3 settimane, ma che si risolvono nell’arco di 3-6 mesi. Questa, se persiste, porterà il soggetto a sviluppare tutti quei meccanismi propri della forma cronica. Come si può notare, nel modello della classificazione della lombalgia, l’aspetto legato alla durata temporale è sicuramente l’aspetto centrale. In passato si vedeva la lombalgia come un problema esclusivamente fisico e se ne cercava la soluzione prevalentemente con inter-venti fisici e terapie eziopatogenetiche. Negli anni ‘80 si è passati al modello cognitivo-comportamentale, secondo cui la lombalgia era di natura esclusivamente psicologica. Oggi si parla di modello biopsicosociale, che è universalmente accettato, in cui si riconosce una causa scatenante fisica, che tende a complicarsi nel tempo, e, se perdura, può causare il subentro dei fattori biopsicosociali, che a loro volta daranno luogo alla lombalgia cronica. In questo modello è quindi importante il fattore “tempo”, che determina il passaggio dalla forma acuta a quella cronica in circa 3-6 mesi, sviluppando una serie di fattori di rischio fisici, psichici e sociali che possono amplificarsi vicendevolmente, portando ad un circolo vizioso che determina un continuo progredire della patologia. Importanti sono anche le conseguenze del dolore, che possono portare il paziente a sviluppare delle risposte comportamentali alte-rate, determinando ulteriori fattori di rischio. Ci può essere anche una sensibilizzazione centrale e/o periferica che causa dolore cronico. Tra le componenti psicosociali che partecipa-no allo sviluppo della patologia si può individuare il condizionamento fisico da non uso, per il quale il paziente tende a muoversi poco, evitando diverse attività che potrebbero elici-tare il dolore, portando a volte a una serie di ripercussioni sociali importanti sul lavoro, sulla famiglia, e la perdita di interesse verso attività ludiche precedentemente svolte.

La difficile convivenza paziente-lombalgia.

Un esempio classico di quadro clinico di paziente con lombalgia cronica, si caratterizza per un dolore difficile da controllare a cui si associa un misto di speranza, disillusione e disperazione. Spesso questi pazienti hanno già effettuato molte visite e vari tratta-menti senza trarne giovamento, peggiorando in tal modo la situazione della loro condizione sia fisica sia psichica. Il dolore in questi pazienti tende a diventare il centro della loro vita, spesso è la paura del dolore che diventa più invalidante rispetto al dolore stesso. I pazienti smettono di effettuare tutte quelle attività che elicitano dolore lombare o che in un episodio lo hanno scatenato. Tale atteggiamento porta alla “Sindrome da Decondizionamento”, in cui il paziente si debilita progressivamente poiché riduce l’utilizzo del suo corpo. Si pensa che ci sia un’associazione tra la sindrome da non uso e la lombalgia cronica anche se a oggi non è ancora chiaro il rapporto causa effetto.

Strategie di cura

Le linee guida Italiane di riferimento risalgono al 2006. L’approccio è basato su delle Flow Chart: la forma acuta tende ad auto-risolversi, mentre la cronica persiste e pur-troppo solo il 20% dei pazienti presenta un problema in cui si riconosce un processo eziopatogenetico ben definito, sul quale si può agire. Tra le cause eziologiche più frequenti si ricorda: la stenosi del canale lombare, la scoliosi dolorosa dell’adulto, la spondilo artrite, l’ernia, o componenti multiple più difficili da inquadrare. In questi pazienti chiaramente l’aspetto della disabilità risulta molto importante e viene valutato attraverso dei questionari. Sul decorso della lombalgia cronica si assiste ad una risoluzione della sintomatologia in meno del 5% dei casi. Va riportato, inoltre, che a distanza di 20-30 anni alcuni pazienti riescono a risolvere spontaneamente la sintomatologia.

L’obiettivo del trattamento nello stadio cronico, considerando che i pazienti sono già stati sottoposti a molteplici procedure diagnosti-che e terapeutiche, è quello di cercare di ridurre e rallentare il peggioramento della disabilità nel tempo. Quindi, non si cerca un trattamento mirato esclusivamente alla riduzione del dolore, ma a un approccio che porti a migliorare la qualità di vita del paziente. Uno degli strumenti più importanti che deve essere utilizzato è l’educazione del paziente, che viene stimola-to ad essere attivo nella gestione della sua patologia, prendendosi carico di sé stesso e del controllo del suo dolore. La terapia sintomatica è secondaria e deve essere affiancata alla terapia riabilitativa. Generalmente questi pazienti hanno fatto uso di molti farmaci e terapie fisiche con scarsi risultati, confermando ciò che la maggioranza degli studi ha mostra-to in merito al trattamento del dolore da lombalgia cronica e alla risoluzione della stessa mediante l’uso di FANS, oppiodi e terapie fisiche (laser, TENS ecc.). Quindi il percorso terapeutico si basa sull’educazione del paziente, il quale viene reso consapevole del fatto che risolvere completamente il suo dolore è un traguardo difficile; devono essere spiegate le varie opzioni terapeutiche, la possibilità di migliorare la sua forma fisica e la sua qualità di vita.

È importante, dunque, che il paziente venga preso in carico da un team multidisciplinare.

L’educazione del paziente

Vari studi dimostrano che l’educazione del paziente in fase acuta è efficace, mentre da sola nelle forme croniche sembra non bastare.

Le linee guida per il trattamento elencano una scala di indicazioni terapeutiche: back school di gruppo, ovvero apprendimento di esercizi di gruppo, apprendimento di esercizi individuali e terapia cognitivo comportamentale. Quando la disabilità è grave questa sequenza si inverte. La back school è l’approccio più semplice al paziente: si forniscono indicazioni su come gestirsi e vengono assegnati degli esercizi mirati al miglioramento della patologia. Punti di forza sono dati dal fatto che il paziente ha dei termini di paragone di altri individui nella sua stessa condizione e che si tratta di un approccio relativamente economico. Lo svantaggio fondamentale è che è poco specifico. Inoltre, l’approccio è di tipo negativo (raccomandazioni al paziente di cosa non deve fare), mentre di recente è stato riscontrato che un approccio positivo porta a risultati migliori. Tale metodica rap-presenta il gold standard della lombalgia cronica a bassa disabilità e in assenza di possibilità di trattarla con approcci più aggressivi. Gli esercizi individuali sono una modalità terapeutica diffusa in tutto l’Occidente. Le prove scientifiche della loro efficacia sono tuttavia discordanti, poiché sembra avere una ridotta efficacia sul miglioramento della lombalgia cronica e ad oggi non c’è dimostrazione della sua efficacia sulle ricorrenze della lombalgia. Gli obiettivi degli esercizi possono essere: riduzione del dolore, riduzione della disabilità con recupero della funzione, della paura, e induzione positiva dell’attività fisica regola-re. Un vantaggio di questa metodica è dato dalla maggiore specificità rispetto alla precedente, poiché è possibile dare informa-zioni al paziente mentre si fanno gli esercizi. Inoltre, è particolarmente utile per il trattamento di pazienti anziani che general-mente hanno dei dolori determinati da un progressivo decadimento fisico legato a una grande componente di disuso, senza una vera e propria compromissione psicologica. La terapia cognitivo comportamentale è una tecnica che analizza gli schemi cogniti-vi comportamentali del paziente, cercando di modificare quelli che creano un disagio. Ci sono evidenze a loro favore nel tratta-mento del paziente cronico. In questo contesto terapeutico è importante stabilire degli obiettivi realistici da rag-giungere con il paziente, somministrando un questionario o chiedendo direttamente al paziente quali sono le limitazioni principali della sua vita che vorrebbe cercare di risolvere. Grazie a questa tecnica, si può insegnare a modificare l’approccio al proprio problema e capire le correlazioni tra gli aspetti fisici e quelli psicologici per cercare di spezzare i circoli viziosi nominati precedentemente. Per arrivare a raggiungere i target terapeutici, è necessario guadagnare la fiducia del paziente, dotare i pazienti degli strumenti per la gestione del proprio problema, cercare di far prendere consapevolezza della propria patologia in modo che se ne prenda carico, andando a modificare quei comportamenti negativi e documentando sempre i progressi raggiunti, poiché i pazienti tendono spesso a dimenticarli (e quindi cercare di incoraggiarli mostrandogli i loro miglioramenti). È auspicabile che il paziente impari a gestire autonomamente il proprio problema. È stato dimostrato da studi di neurofisiologia che i pazienti Cooper (ovvero in grado di eseguire esercizi autonomamente e regolarmente) hanno un’attivazione del sistema nervoso centrale diversa nelle aree che vanno ad interpretare il dolore, che si pensa determini un maggior effetto analgesico rispetto ai pazienti non Cooper. Quindi medico e fisioterapista nei pazienti Cooper devono essere soltanto una guida in questo difficile percorso.

Take home messages:

1) esistenza del modello biopsicosociale per la lombalgia cronica;

2) Importanza del percorso terapeutico riabilitativo;

3) discriminazione tra la disabilità lieve e la disabilità grave;

4) approccio cognitivo comportamentale come gold standard per i casi più complessi ed invalidanti;

5) terapia antalgica come supporto.

Ad oggi il risultato di sconfiggere il dolore nella lombalgia cronica sembra lontano, ma sicura-mente le terapie fisiche aiutano a migliorare la qualità di vita.

Considerazioni finali

Da questo lavoro emerge sicuramente l’importanza del ruolo di un’équipe multidisciplinare, che penso non sia solo il cardine dell’approccio riabilitativo, ma anche una componente fonda-mentale nella terapia del dolore. Il fatto che l’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore sia aperta a tutte le figure sanitarie coinvolte nello studio del dolore, la numerosa ed eterogenea partecipazione di figure specialistiche mediche, avvalora e rinforza questo concetto. Da questa relazione e da altre, è emerso che spesso i pazienti in Italia “soffrono” dell’incapacità dei medici di collaborare, trovandosi a ripetere esami diagnostici invasivi e rischiosi, venendo sottoposti a trattamenti spesso inutili, incrementando la spesa sanitaria, aumentando il rischio di lesioni iatrogene e determinando un peggioramento qualitativo in tutta la rete assistenziale. Un altro aspetto che vorrei sottolineare è quello legato al limite culturale che alcuni medici ancora hanno sulla possibilità di usare in sinergia, quando possibile, le terapie fisiche/cognitivo comportamentali con la terapia farmacologica tradizionale. In questa relazione, come anche in altre (quella sulle cefalee, sulle sindromi algiche, sul dolore pelvico, sulla fibromialgia, sul dolore oncologico) è emerso come combinando i due approcci si possano ottenere ottimi risultati terapeutici, soprattutto nel controllo del dolore. Infine, mi ha colpito il concetto di paziente “Cooper” e degli effetti positivi che tale attitudine ha sul controllo del dolore nella lombalgia."