venerdì 30 aprile 2021

...sinergia tra terapia antalgica e riabilitativa

Articolo apparso sull’Organo ufficiale della Associazione Italiana per lo Studio del Dolore, 

Dolore – aggiornamenti clinici n. 2-4-2013

"Sinergia tra terapia antalgica e riabilitativa. Dolore lombare e sindromi correlate.

Un giovane medico, socio AISD, nostro cronista al Congresso di Verona - Alexandre Forneris. Roma

Abbiamo chiesto a un giovane medico specializzando, socio AISD al primo anno di anestesia e rianimazione e al suo primo convegno sulla terapia del dolore, di raccontarci qualcosa che lo avesse particolarmente interessato del Congresso AISD di Verona, per guardarci anche noi con occhi nuovi. In questo articolo ci presenta i punti salienti della relazione di medicina riabilitativa, curata dal dottor F. Zaina. Ha scelto questo tema perché il primo reparto che ha frequentato durante i sei anni di medicina è stato di medicina riabilitativa e qui ha appreso quanto sia importante e affascinante studiare i rimedi per curare il dolore dei malati.

La lombalgia viene definita come un dolore e una limitazione funzionale compresa tra l’arcata costale e le pieghe glutee inferiori, che può eventualmente irradiarsi posteriormente alla coscia ma non oltre il ginocchio. Questo dolore può causare diversi gradi di disabilità. Il termine “lombalgia” nasce dalla definizione di un sintomo, ma nel tempo ha acquisito una concezione differente, che va a definire un vero e proprio quadro clinico. Tale cambiamento è probabilmente legato all’incapacità di inquadrare questa malattia, soprattutto da un punto di vista eziopatogenetico. Nell’80% dei casi, infatti, non è possibile indicare con chiarezza quale sia la causa scatenante. Il modello di riferimento attuale della lombalgia distingue tre forme: una acuta, che è una patologia essenzialmente fisica, legata a un danno biologico che dura non oltre 4 setti-mane; una forma cronica che è definita come una patologia di tipo biopsicosociale, ovvero al problema fisico si aggiunge una serie di disagi psicologici e di limiti sociali, trasformando il semplice problema fisico in un problema più vasto e di diversa natura. Inoltre per essere definita tale, deve avere una durata superiore 3 mesi. È tuttavia in corso un dibattito circa la durata, poiché studi più recenti mostrano che 6mesi rappresentano probabilmente il lasso di tempo che meglio si correla con il suo sviluppo. La fase di transizione tra questi due quadri viene definita lombalgia subacuta: ne fanno parte le lombalgie di durata superiore alle 3 settimane, ma che si risolvono nell’arco di 3-6 mesi. Questa, se persiste, porterà il soggetto a sviluppare tutti quei meccanismi propri della forma cronica. Come si può notare, nel modello della classificazione della lombalgia, l’aspetto legato alla durata temporale è sicuramente l’aspetto centrale. In passato si vedeva la lombalgia come un problema esclusivamente fisico e se ne cercava la soluzione prevalentemente con inter-venti fisici e terapie eziopatogenetiche. Negli anni ‘80 si è passati al modello cognitivo-comportamentale, secondo cui la lombalgia era di natura esclusivamente psicologica. Oggi si parla di modello biopsicosociale, che è universalmente accettato, in cui si riconosce una causa scatenante fisica, che tende a complicarsi nel tempo, e, se perdura, può causare il subentro dei fattori biopsicosociali, che a loro volta daranno luogo alla lombalgia cronica. In questo modello è quindi importante il fattore “tempo”, che determina il passaggio dalla forma acuta a quella cronica in circa 3-6 mesi, sviluppando una serie di fattori di rischio fisici, psichici e sociali che possono amplificarsi vicendevolmente, portando ad un circolo vizioso che determina un continuo progredire della patologia. Importanti sono anche le conseguenze del dolore, che possono portare il paziente a sviluppare delle risposte comportamentali alte-rate, determinando ulteriori fattori di rischio. Ci può essere anche una sensibilizzazione centrale e/o periferica che causa dolore cronico. Tra le componenti psicosociali che partecipa-no allo sviluppo della patologia si può individuare il condizionamento fisico da non uso, per il quale il paziente tende a muoversi poco, evitando diverse attività che potrebbero elici-tare il dolore, portando a volte a una serie di ripercussioni sociali importanti sul lavoro, sulla famiglia, e la perdita di interesse verso attività ludiche precedentemente svolte.

La difficile convivenza paziente-lombalgia.

Un esempio classico di quadro clinico di paziente con lombalgia cronica, si caratterizza per un dolore difficile da controllare a cui si associa un misto di speranza, disillusione e disperazione. Spesso questi pazienti hanno già effettuato molte visite e vari tratta-menti senza trarne giovamento, peggiorando in tal modo la situazione della loro condizione sia fisica sia psichica. Il dolore in questi pazienti tende a diventare il centro della loro vita, spesso è la paura del dolore che diventa più invalidante rispetto al dolore stesso. I pazienti smettono di effettuare tutte quelle attività che elicitano dolore lombare o che in un episodio lo hanno scatenato. Tale atteggiamento porta alla “Sindrome da Decondizionamento”, in cui il paziente si debilita progressivamente poiché riduce l’utilizzo del suo corpo. Si pensa che ci sia un’associazione tra la sindrome da non uso e la lombalgia cronica anche se a oggi non è ancora chiaro il rapporto causa effetto.

Strategie di cura

Le linee guida Italiane di riferimento risalgono al 2006. L’approccio è basato su delle Flow Chart: la forma acuta tende ad auto-risolversi, mentre la cronica persiste e pur-troppo solo il 20% dei pazienti presenta un problema in cui si riconosce un processo eziopatogenetico ben definito, sul quale si può agire. Tra le cause eziologiche più frequenti si ricorda: la stenosi del canale lombare, la scoliosi dolorosa dell’adulto, la spondilo artrite, l’ernia, o componenti multiple più difficili da inquadrare. In questi pazienti chiaramente l’aspetto della disabilità risulta molto importante e viene valutato attraverso dei questionari. Sul decorso della lombalgia cronica si assiste ad una risoluzione della sintomatologia in meno del 5% dei casi. Va riportato, inoltre, che a distanza di 20-30 anni alcuni pazienti riescono a risolvere spontaneamente la sintomatologia.

L’obiettivo del trattamento nello stadio cronico, considerando che i pazienti sono già stati sottoposti a molteplici procedure diagnosti-che e terapeutiche, è quello di cercare di ridurre e rallentare il peggioramento della disabilità nel tempo. Quindi, non si cerca un trattamento mirato esclusivamente alla riduzione del dolore, ma a un approccio che porti a migliorare la qualità di vita del paziente. Uno degli strumenti più importanti che deve essere utilizzato è l’educazione del paziente, che viene stimola-to ad essere attivo nella gestione della sua patologia, prendendosi carico di sé stesso e del controllo del suo dolore. La terapia sintomatica è secondaria e deve essere affiancata alla terapia riabilitativa. Generalmente questi pazienti hanno fatto uso di molti farmaci e terapie fisiche con scarsi risultati, confermando ciò che la maggioranza degli studi ha mostra-to in merito al trattamento del dolore da lombalgia cronica e alla risoluzione della stessa mediante l’uso di FANS, oppiodi e terapie fisiche (laser, TENS ecc.). Quindi il percorso terapeutico si basa sull’educazione del paziente, il quale viene reso consapevole del fatto che risolvere completamente il suo dolore è un traguardo difficile; devono essere spiegate le varie opzioni terapeutiche, la possibilità di migliorare la sua forma fisica e la sua qualità di vita.

È importante, dunque, che il paziente venga preso in carico da un team multidisciplinare.

L’educazione del paziente

Vari studi dimostrano che l’educazione del paziente in fase acuta è efficace, mentre da sola nelle forme croniche sembra non bastare.

Le linee guida per il trattamento elencano una scala di indicazioni terapeutiche: back school di gruppo, ovvero apprendimento di esercizi di gruppo, apprendimento di esercizi individuali e terapia cognitivo comportamentale. Quando la disabilità è grave questa sequenza si inverte. La back school è l’approccio più semplice al paziente: si forniscono indicazioni su come gestirsi e vengono assegnati degli esercizi mirati al miglioramento della patologia. Punti di forza sono dati dal fatto che il paziente ha dei termini di paragone di altri individui nella sua stessa condizione e che si tratta di un approccio relativamente economico. Lo svantaggio fondamentale è che è poco specifico. Inoltre, l’approccio è di tipo negativo (raccomandazioni al paziente di cosa non deve fare), mentre di recente è stato riscontrato che un approccio positivo porta a risultati migliori. Tale metodica rap-presenta il gold standard della lombalgia cronica a bassa disabilità e in assenza di possibilità di trattarla con approcci più aggressivi. Gli esercizi individuali sono una modalità terapeutica diffusa in tutto l’Occidente. Le prove scientifiche della loro efficacia sono tuttavia discordanti, poiché sembra avere una ridotta efficacia sul miglioramento della lombalgia cronica e ad oggi non c’è dimostrazione della sua efficacia sulle ricorrenze della lombalgia. Gli obiettivi degli esercizi possono essere: riduzione del dolore, riduzione della disabilità con recupero della funzione, della paura, e induzione positiva dell’attività fisica regola-re. Un vantaggio di questa metodica è dato dalla maggiore specificità rispetto alla precedente, poiché è possibile dare informa-zioni al paziente mentre si fanno gli esercizi. Inoltre, è particolarmente utile per il trattamento di pazienti anziani che general-mente hanno dei dolori determinati da un progressivo decadimento fisico legato a una grande componente di disuso, senza una vera e propria compromissione psicologica. La terapia cognitivo comportamentale è una tecnica che analizza gli schemi cogniti-vi comportamentali del paziente, cercando di modificare quelli che creano un disagio. Ci sono evidenze a loro favore nel tratta-mento del paziente cronico. In questo contesto terapeutico è importante stabilire degli obiettivi realistici da rag-giungere con il paziente, somministrando un questionario o chiedendo direttamente al paziente quali sono le limitazioni principali della sua vita che vorrebbe cercare di risolvere. Grazie a questa tecnica, si può insegnare a modificare l’approccio al proprio problema e capire le correlazioni tra gli aspetti fisici e quelli psicologici per cercare di spezzare i circoli viziosi nominati precedentemente. Per arrivare a raggiungere i target terapeutici, è necessario guadagnare la fiducia del paziente, dotare i pazienti degli strumenti per la gestione del proprio problema, cercare di far prendere consapevolezza della propria patologia in modo che se ne prenda carico, andando a modificare quei comportamenti negativi e documentando sempre i progressi raggiunti, poiché i pazienti tendono spesso a dimenticarli (e quindi cercare di incoraggiarli mostrandogli i loro miglioramenti). È auspicabile che il paziente impari a gestire autonomamente il proprio problema. È stato dimostrato da studi di neurofisiologia che i pazienti Cooper (ovvero in grado di eseguire esercizi autonomamente e regolarmente) hanno un’attivazione del sistema nervoso centrale diversa nelle aree che vanno ad interpretare il dolore, che si pensa determini un maggior effetto analgesico rispetto ai pazienti non Cooper. Quindi medico e fisioterapista nei pazienti Cooper devono essere soltanto una guida in questo difficile percorso.

Take home messages:

1) esistenza del modello biopsicosociale per la lombalgia cronica;

2) Importanza del percorso terapeutico riabilitativo;

3) discriminazione tra la disabilità lieve e la disabilità grave;

4) approccio cognitivo comportamentale come gold standard per i casi più complessi ed invalidanti;

5) terapia antalgica come supporto.

Ad oggi il risultato di sconfiggere il dolore nella lombalgia cronica sembra lontano, ma sicura-mente le terapie fisiche aiutano a migliorare la qualità di vita.

Considerazioni finali

Da questo lavoro emerge sicuramente l’importanza del ruolo di un’équipe multidisciplinare, che penso non sia solo il cardine dell’approccio riabilitativo, ma anche una componente fonda-mentale nella terapia del dolore. Il fatto che l’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore sia aperta a tutte le figure sanitarie coinvolte nello studio del dolore, la numerosa ed eterogenea partecipazione di figure specialistiche mediche, avvalora e rinforza questo concetto. Da questa relazione e da altre, è emerso che spesso i pazienti in Italia “soffrono” dell’incapacità dei medici di collaborare, trovandosi a ripetere esami diagnostici invasivi e rischiosi, venendo sottoposti a trattamenti spesso inutili, incrementando la spesa sanitaria, aumentando il rischio di lesioni iatrogene e determinando un peggioramento qualitativo in tutta la rete assistenziale. Un altro aspetto che vorrei sottolineare è quello legato al limite culturale che alcuni medici ancora hanno sulla possibilità di usare in sinergia, quando possibile, le terapie fisiche/cognitivo comportamentali con la terapia farmacologica tradizionale. In questa relazione, come anche in altre (quella sulle cefalee, sulle sindromi algiche, sul dolore pelvico, sulla fibromialgia, sul dolore oncologico) è emerso come combinando i due approcci si possano ottenere ottimi risultati terapeutici, soprattutto nel controllo del dolore. Infine, mi ha colpito il concetto di paziente “Cooper” e degli effetti positivi che tale attitudine ha sul controllo del dolore nella lombalgia."

 

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