mercoledì 19 gennaio 2022

…la speranza come gesto di cura


Oggi voglio ripresentare un testo che scrisse il dr. Graziano Martignoni per la Rivista per le Medical Humanities nel 2016. Un testo che parla della speranza, o meglio “la cura della speranza fa della speranza un gesto di cura”.

 

“L'umanesimo clinico e l'opera della speranza

 «… poiché la Parola della Vita
detiene l’inconcepibile potere
di dare la vita, essa è un’azione,
l’azione di dare la vita, di generarla
nella nascita intemporale di ogni
vivente, di risuscitarla quando
essa non è più».
Michel Henry,
Paroles du Christ  

          La cura della speranza o la speranza come cura  

           L’umanesimo clinico parla delle forme della vita1 e prova a custodirle nel dolore e nella sofferenza della malattia. È come una sentinella della dignità della persona e della sua inalienabile singolarità. Non è tanto un modo per mettere dell’umanità nella medicina tecno-scientifica e nel suo gesto di cura, ma soprattutto è un modo per fare delle scienze della cura, proprio a partire dalla medicina «al letto del malato», soprattutto e in primo luogo una scienza dell’uomo, una vera e propria patosofia2. L’umanesimo clinico partecipa, favorisce e appartiene fondamentalmente, come se ne condividesse l’aria di famiglia, alla svolta antropologica della medicina. L’uomo, per comprenderlo, bisogna «tenerlo vicino», porsi all’ascolto del suo originario sentire-patire, non basta guardarlo, misurarlo, scomporlo nei suoi organi o farlo divenire oggetto di ricerca, bisogna accoglierlo come soggetto di desiderio e di passione. Questa la sfida dell’umanesimo clinico, qualcosa in più e qualcosa in meno delle tecniche etico-relazionali delle Medical Humanities. L’umanesimo clinico, sentinella e custode dell’opera della speranza.
           Di che cosa parliamo quando parliamo delle forme della vita? Le forme della vita dicono l’esistenza con le sue vertigini, le sue disperazioni, ma anche le sue felicità. La colgono sul crinale tra la sua inarrestabile trascendenza e l’abisso delle cellule della sua somaticità. In esse l’opera della speranza, come pratica attiva, ma anche come «bella tentazione della felicità»3, svolge un compito generativo, in cui il curante è sovente un vero e proprio «ostetrico della vita». Qui la cura della speranza fa della speranza un gesto di cura. Speranza non vuota parola, vago richiamo a un volontarismo sentimentale di facile consumo in tempi così incerti, ma richiamo alla difficoltà, alla fatica della sua cura, di una cura della speranza, che tocca a tutti noi giorno dopo giorno. Non vi sono, per buona fortuna, professionisti della speranza: la sua cura riguarda tutti. Chi è comunque chiamato, per compito professionale, a so-stare nelle vicinanze della malattia e della sofferenza dell’uomo, può/deve essere testimone della sua sempre possibile presenza, veicolo del- la sua apparizione anche dentro il presente più doloroso e oscuro. È ciò che si può riassumere con l’espressione «cura della speranza».
           La speranza, dunque, non come sentimento generico, dolcificante della vita, ma come veicolo dell’incontrarsi, che non è solamente tecnica relazionale o buona educazione, ma «stile», modo di fare, modo di porsi e di esporsi nei confronti del malato e della sofferenza. Un esporsi che è, per il curante, condivisione di quella «progressiva spoliazione»4 dell’Io, di quell’umiltà del pensare sensibile che parte dal riconoscimento della nostra stessa «claudicanza». L’incontrarsi che non è infatti riducibile a mera buona comunicazione e alle sue tecniche, non è piegabile a relazione professionale adeguata, non si lascia appiattire a semplice trasmissione di informazioni nel rispetto di quel «mitologico» paziente informato, di cui oggi tutti parlano.
           La «cura della speranza» per vivere ha bisogno di trovare spazio e tempo nel dialogo inter-soggettivo, in quel rapporto tra Io e Tu e Io-Tu-Esso di cui ci parlava Martin Buber già nel 19235, governato dal principio di reciprocità. La speranza ha però bisogno anche di luoghi di vita, luoghi della sua respirazione e della sua narrazione, che sappiano produrre non solo vita biologica, ma vivencia, come la definisce quella «pensatrice errante» che è stata Maria Zambrano6. Vivencia come legame necessario tra esistenza e senso. L’umanesimo clinico, testimone di questa narrazione, diviene qui veicolo di un’etica pubblica, che sappia costruire, custodire e costantemente rigenerare i luoghi della speranza, che hanno bisogno sempre e comunque di vivere quel Mit-sein, Io-Tu, Io-Esso, senza il quale sarebbero condannati al sartriano pratico-inerte7, condizione di inerte efficacia, in cui vivono molte istituzioni di cura, sia sociali che sanitarie.

           La speranza viene da lontano

  Viene da lontano, è quotidiana e concreta, ma è anche bagnata dal mito. La speranza, ultimo resto rimasto nel fondo del vaso di Pandora… Un giorno Zeus, il sovrano dell’Olimpo, in un tempo che non è mai stato ma che è sempre avvenuto, arrabbiato per il furto del fuoco divino da parte di Prometeo, volle punire gli uomini. Ordinò a Efesto, dio del fuoco, di creare una bellissima fanciulla di nome Pandora («pan doron», «tutti i doni») a cui tutti gli altri dei offrirono ogni sorta di virtù. Pandora venne condotta da Epimeteo («colui che riflette tardi»), il fratello un po’ sciocco di Prometeo, il quale, contro il saggio consiglio del fratello di non accettare alcun dono che provenisse dagli dei, sposò Pandora che portava con sé un vaso regalatole da Zeus stesso, che però le aveva ordinato di tenere sempre chiuso. Pandora disobbedì, la curiosità la spinse a scoperchiare il vaso dal quale fluirono nel mondo tutti i dolori e tutti i mali, come recita Esiodo «e altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini». Sul fondo del vaso rimase solo elpis, la speranza, che non volò via e rimase come ultimo dono agli uomini. È di questo piccolo dono, capace di decidere del vivere o del morire prima di morire, di dare nella bufera e nel dolore un orizzonte all’esistenza, che l’umanesimo clinico si fa custode. (…)”

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