Oggi voglio ripresentare un testo che scrisse il dr. Graziano Martignoni per la Rivista per le Medical Humanities nel 2016. Un testo che parla della speranza, o meglio “la cura della speranza fa della speranza un gesto di cura”.
“L'umanesimo clinico e l'opera della speranza
«… poiché la Parola della Vita
detiene l’inconcepibile potere
di dare la vita, essa è un’azione,
l’azione di dare la vita, di generarla
nella nascita intemporale di ogni
vivente, di risuscitarla quando
essa non è più».
Michel Henry,
Paroles du Christ
La cura della speranza o la speranza come
cura
L’umanesimo clinico parla
delle forme della vita1 e prova a custodirle nel
dolore e nella sofferenza della malattia. È come una sentinella della dignità
della persona e della sua inalienabile singolarità. Non è tanto un modo per
mettere dell’umanità nella medicina tecno-scientifica e nel suo gesto di cura,
ma soprattutto è un modo per fare delle scienze della cura, proprio a partire
dalla medicina «al letto del malato», soprattutto e in primo luogo una scienza
dell’uomo, una vera e propria patosofia2. L’umanesimo clinico partecipa,
favorisce e appartiene fondamentalmente, come se ne condividesse l’aria di
famiglia, alla svolta antropologica della medicina. L’uomo, per comprenderlo,
bisogna «tenerlo vicino», porsi all’ascolto del suo originario sentire-patire,
non basta guardarlo, misurarlo, scomporlo nei suoi organi o farlo divenire
oggetto di ricerca, bisogna accoglierlo come soggetto di desiderio e di
passione. Questa la sfida dell’umanesimo clinico, qualcosa in più
e qualcosa in meno delle tecniche etico-relazionali delle Medical Humanities.
L’umanesimo clinico, sentinella e custode dell’opera della speranza.
Di che cosa parliamo quando
parliamo delle forme della vita? Le forme della vita dicono
l’esistenza con le sue vertigini, le sue disperazioni, ma anche le sue
felicità. La colgono sul crinale tra la sua inarrestabile trascendenza e
l’abisso delle cellule della sua somaticità. In esse l’opera della speranza,
come pratica attiva, ma anche come «bella tentazione della felicità»3, svolge un compito
generativo, in cui il curante è sovente un vero e proprio «ostetrico della
vita». Qui la cura della speranza fa della speranza
un gesto di cura. Speranza non vuota parola, vago richiamo a un
volontarismo sentimentale di facile consumo in tempi così incerti, ma richiamo
alla difficoltà, alla fatica della sua cura, di una cura della
speranza, che tocca a tutti noi giorno dopo giorno. Non vi sono, per buona
fortuna, professionisti della speranza: la sua cura riguarda tutti. Chi
è comunque chiamato, per compito professionale, a so-stare nelle vicinanze
della malattia e della sofferenza dell’uomo, può/deve essere testimone della
sua sempre possibile presenza, veicolo del- la sua apparizione anche dentro il
presente più doloroso e oscuro. È ciò che si può riassumere con l’espressione
«cura della speranza».
La speranza, dunque, non
come sentimento generico, dolcificante della vita, ma come veicolo dell’incontrarsi,
che non è solamente tecnica relazionale o buona educazione, ma «stile», modo di
fare, modo di porsi e di esporsi nei confronti del malato e della sofferenza.
Un esporsi che è, per il curante, condivisione di quella «progressiva
spoliazione»4 dell’Io, di quell’umiltà
del pensare sensibile che parte dal riconoscimento della nostra stessa
«claudicanza». L’incontrarsi che non è infatti riducibile a mera buona
comunicazione e alle sue tecniche, non è piegabile a relazione professionale
adeguata, non si lascia appiattire a semplice trasmissione di informazioni nel
rispetto di quel «mitologico» paziente informato, di cui oggi tutti
parlano.
La «cura della speranza» per
vivere ha bisogno di trovare spazio e tempo nel dialogo inter-soggettivo, in
quel rapporto tra Io e Tu e Io-Tu-Esso di cui ci parlava Martin Buber
già nel 19235, governato dal principio
di reciprocità. La speranza ha però bisogno anche di luoghi di
vita, luoghi della sua respirazione e della sua narrazione, che sappiano
produrre non solo vita biologica, ma vivencia, come la definisce quella
«pensatrice errante» che è stata Maria Zambrano6. Vivencia come
legame necessario tra esistenza e senso. L’umanesimo clinico, testimone
di questa narrazione, diviene qui veicolo di un’etica pubblica, che sappia
costruire, custodire e costantemente rigenerare i luoghi della speranza, che
hanno bisogno sempre e comunque di vivere quel Mit-sein, Io-Tu, Io-Esso,
senza il quale sarebbero condannati al sartriano pratico-inerte7,
condizione di inerte efficacia, in cui vivono molte istituzioni di cura, sia
sociali che sanitarie.
La speranza viene da lontano
Viene da lontano, è quotidiana e concreta, ma è anche bagnata dal mito.
La speranza, ultimo resto rimasto nel fondo del vaso di Pandora… Un giorno
Zeus, il sovrano dell’Olimpo, in un tempo che non è mai stato ma che è sempre
avvenuto, arrabbiato per il furto del fuoco divino da parte di Prometeo, volle
punire gli uomini. Ordinò a Efesto, dio del fuoco, di creare una bellissima
fanciulla di nome Pandora («pan doron», «tutti i doni») a cui tutti gli
altri dei offrirono ogni sorta di virtù. Pandora venne condotta da Epimeteo
(«colui che riflette tardi»), il fratello un po’ sciocco di Prometeo, il quale,
contro il saggio consiglio del fratello di non accettare alcun dono che
provenisse dagli dei, sposò Pandora che portava con sé un vaso regalatole da Zeus
stesso, che però le aveva ordinato di tenere sempre chiuso. Pandora disobbedì,
la curiosità la spinse a scoperchiare il vaso dal quale fluirono nel mondo
tutti i dolori e tutti i mali, come recita Esiodo «e altri mali, infiniti,
vanno errando fra gli uomini». Sul fondo del vaso rimase solo elpis, la
speranza, che non volò via e rimase come ultimo dono agli uomini. È di questo
piccolo dono, capace di decidere del vivere o del morire prima di morire, di
dare nella bufera e nel dolore un orizzonte all’esistenza, che l’umanesimo
clinico si fa custode. (…)”
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