venerdì 19 gennaio 2024

...Italiani e dolore cronico: ne soffrono quasi dieci milioni

Liberarsi del dolore cronico con EMDR | Guarire con EMDR
(immagine dal web)

 

Roma, 9 gennaio 2023 (Agenbio) – Due italiani su dieci convivono con un dolore cronico di intensità da moderata a severa. Se vogliamo parlare in termini percentuali siamo al 19,7% della popolazione maggiorenne (circa 9,8 milioni di individui). Non è un problema che riguarda soltanto gli anziani, tutt’altro. Si va dal 14,7% dei giovani al 21,1% degli adulti per finire al 20,9% degli anziani. Quello che si può attestare, sempre analizzando i dati, è che sia una questione più femminile che maschile: 21,2% delle donne contro il 18,1% degli uomini. Questo è il quadro emerso dal primo rapporto Censis-Grunenthal ‘Vivere senza dolore’. Tutto ciò comporta dei costi sociali, spese sostenute sia a carico dei malati che del Servizio sanitario nazionale. Costi che possiamo quantificare in 6.304 euro in media all’anno per paziente, di cui 1.838 euro di costi diretti e 4.466 euro di costi indiretti. I primi si suddividono tra i 646 euro attribuibili ai pazienti e i 1.192 euro che ricadono sul Servizio sanitario nazionale. Volendo fare la somma, il totale dell’ammontare è stimabile in 61,9 miliardi di euro all’anno. Questo dolore cronico comporta conseguenze per il 92,8% dei malati tale da condizionare le proprie attività quotidiane. Tra l’altro i costi da sostenere per la gestione e la cura della patologia hanno un peso sul bilancio familiare per il 66,5% dei malati. (Agenbio) Des 12:00

 

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lunedì 15 gennaio 2024

...iniziamo con buone notizie

(immagine dal web)

"IRB, scoperte le cellule che diminuiscono il dolore

Una ricerca condotta dall’Istituto di Bellinzona spiega perché l’inserimento di tessuto adiposo sotto le cicatrici reca talvolta sollievo ai pazienti - Tutto dipende da specifiche staminali.

È una domanda che ha arrovellato per quattro anni i ricercatori dell’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB) di Bellinzona. Per migliorare l’elasticità e il colore delle cicatrici, da tempo vi si inserisce sotto del grasso proveniente da fianchi e addome del paziente. Con questo intervento in alcuni casi scompare anche il male provato, in altri persiste. Come mai? Quale componente cellulare presente nel tessuto adiposo influisce sul dolore, diminuendolo?

L’interrogativo ha ora, grazie a uno studio condotto a Bellinzona, una risposta e il merito è di un tipo di cellula staminale, presente in tutti gli esseri umani, ma in concentrazioni differenti. C’è chi ne ha di più e chi di meno, come spiega Tanja Rezzonico-Jost, ricercatrice dell’IRB: “In ogni caso conviene inserite il tessuto adiposo sotto la cicatrice perché ne migliora, il colore e la sensibilità. Ma il male diminuisce e si ha una migliore qualità di vita, arricchendo una parte di questo grasso con queste cellule staminali mesenchimali, che abbiamo rilevato essere correlate alla diminuzione del dolore”.

La riduzione del dolore è stata riscontrata anche a distanza di 4 anni. “L’aspetto che semplifica il tutto è che il tessuto adiposo viene preso dal paziente e direttamente in sala operatoria. Quindi non c’è nessun rischio di rigetto”, dice ancora la ricercatrice dell’IRB.

La scoperta va a beneficio di tutti i pazienti che hanno delle cicatrici dolorose. Ciò significa, sottolinea Tanja Rezzonico-Jost, “donne con cicatrici al seno, dovute a rimozione di tumore oppure persone ustionate gravemente o con cicatrici dovute a interventi chirurgici, per esempio, a seguito di incidenti stradali. Tutte queste cicatrici superficiali e visibili, ma che danno anche dolore cronico”.

La ricerca, a cui hanno partecipato 5 ricercatori dell’IRB - oltre ai chirurghi dell’Humanitas di Milano - si è svolta su un campione di 32 pazienti."

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sabato 18 novembre 2023

...dolore neuropatico: le diversità uomo-donna

(immagine della ricerca)

Ultima modifica: 23 Ottobre 2023

Molte ricerche indicano una maggiore sensibilità e suscettibilità dei soggetti di sesso femminile al dolore cronico, specialmente a quello di origine nervosa (neuropatico), rispetto a quello maschile. Un nuovo studio condotto congiuntamente dal Consiglio nazionale delle ricerche con l’Istituto di biochimica e biologia cellulare di Napoli (Cnr-Ibbc) e l’Istituto dei sistemi complessi di Roma (Cnr-Isc), e dalla Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, dal Centro di Studi e Tecnologie Avanzate (CAST) dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e dall’Università Kore di Enna ne svela la possibile causa.

I risultati, pubblicati sulla rivista iScience, mettono per la prima volta in luce il ruolo chiave svolto dal tessuto adiposo nella regolazione delle risposte infiammatorie e metaboliche specifiche legate al sesso biologico.

“A seguito di una lesione a un nervo periferico il tessuto adiposo maschile - spiega Roberto Coccurello ricercatore Cnr-Isc e Fondazione Santa Lucia IRCCS, supervisore dello studio - promuove la glicolisi, ossia la scissione della molecola di glucosio al fine di generare molecole a più alta energia, e riduce la spesa energetica e i livelli di acidi grassi insaturi. Inoltre favorisce il rilascio di molecole rigenerative, protegge contro lo stress ossidativo, stimola sue proteine tipiche come l’adiponectina, creando un ambiente favorevole alla rigenerazione e alla guarigione dalla neuropatia”. “Il tessuto adiposo femminile, invece - prosegue Claudia Rossi, docente di Biochimica dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara - non solo risponde al danno con un metabolismo alterato simile a quello dei soggetti che sviluppano neuropatie diabetiche, ma rilascia anche altri ormoni coinvolti nella generazione e nel mantenimento del dolore neuropatico”. Queste scoperte aprono una prospettiva terapeutica nuova per affrontare i danni nervosi periferici.

Leggi risultati della ricerca: qui.


mercoledì 15 novembre 2023

...lombalgia cronica, la terapia di rielaborazione può aiutare e controllare il dolore

(immagine dal web)

 
Un piccolo studio americano farebbe osservare che mente e cervello possono condizionare sensibilmente la percezione del dolore nella lombalgia cronica

Francesca Morelli

25 Ottobre 2023

Rielaborare il dolore a livello cerebrale per percepirne un effetto minore a livello locale. È questa la strategia terapeutica, di carattere psicologico associata a trattamenti più tradizionali, suggerita da un gruppo di ricercatori americani, potenzialmente in grado di ridurre le manifestazioni dolorose da lombalgia cronica. Le evidenze in uno studio pubblicato su JAMA Network Open.

Premessa

La mente può condizionare il dolore. Da questo assunto, a metà fra un quesito e una affermazione, è partita una indagine di un gruppo di ricercatori americani che ha voluto valutare la capacità di un approccio psicologico, quale la terapia di rielaborazione del dolore (PRT) nell’“educare” la percezione del dolore in condizioni cliniche altamente antalgiche, come la lombalgia cronica, problematica non esente anche da ricadute sociali, assistenziali, con costi diretti e indiritta, tra cui perdita di ore di lavoro e qualità della vita.

I ricercatori hanno, quindi, voluto indagare se il dolore cronico primario autoriferito dal paziente potesse avere anche una compartecipazione di processi mentali o cerebrali e, dunque, potesse essere in qualche misura condizionato dalla riattribuzione del dolore in termini di convinzioni sulle cause scatenanti.

La PTR, in effetti, sembra riferire da un lato aumenti significativi delle cause di dolore attribuite alla mente o al cervello, ma dall’altro che le stesse correlano a una riduzione del dolore.

Le cause del dolore cronico

Nella lombalgia cronica è convinzione comune in chi ne è portatore, che il dolore sia in prevalenza, se non esclusivamente, dipendente dalle lesioni periferiche, quali le protrusioni discali o osteoartrosi quand’anche, in termini radiologici, i reperti periferici li identifichino come trigger dominanti per sintomi dolorosi. 

Da qui l’indicazione che il dolore cronico primario (CDP) associato a specifiche patologie come la lombalgia cronica, appunto, ma anche alla cefalea tensiva, possa dipendere in molti casi da processi di sovraregolazione centrale e di apprendimento delle minacce. Ovvero esisterebbe una sorta di condizionamento psicologico che porta a correlare il danno tissutale a sentimenti di paura, evitamento, disuso e persistenza del dolore.

Questi potrebbero essere modulati e educati con interventi di PTR che insegna a percepire i segnali di dolore inviati al cervello come meno minacciosi. La dimostrazione di efficacia di questo approccio deriva da un piccolo studio preliminare, randomizzato (PRT vs placebo) condotto su più di 151 adulti, di cui il 54% donne (81) di età compresa tra 21 e 70 anni con mal di schiena cronico, che riferivano CDP di gravità moderata, con durata media di cira10 anni, reclutati tra 2017 al 2018, in cui si è voluto testare gli eventuali benefici, soprattutto in termini di maggior sollievo, dalla riattribuzione del dolore a processi cerebrali piuttosto che alle lesioni periferiche stesse.

I risultati

I partecipanti sono stati invitati a esprimere prima e dopo il trattamento, le 3 principali cause di dolore percepite, ad esempio infortunio durante il gioco del calcio, cattiva postura, stress, l’intensità del dolore medio dell’ultima settimana su una scala da 0 (assenza di dolore) a 10 (dolore massimo).

Successivamente su questi parametri è stato sviluppato un algoritmo che ne consentisse specifiche misurazioni. Sono emerse una dimensione/partecipazione principale della mente e del cervello rispetto alle attribuzioni biomeccaniche ma anche che due terzi delle persone in terapia con PRT, con ricorso a tecniche cognitive, comportamentali e somatiche, raggiungevano assenza totale o quasi di dolore, a fronte del 20% dei controlli con placebo. In questo secondo caso si è ricorso a iniezione sottocute e cure abituali ritenute influenti in termine di attribuzione del dolore.

In conclusione

I risultati dello studio dimostrerebbero che il cambiamento delle prospettive sul ruolo del cervello nel dolore cronico può consentire ai pazienti di sperimentare risultati ed esiti migliori in termini di contenimento del dolore.

Fonte Ashar JK, Lumley MA, Perlis RH et al.  Reattribution to mind-brain processes and recovery from chronic back pain. A secondary analysis of a randomized clinical trial. JAMA Netw Open, 2023, 6(9):e2333846. Doi:http://doi.org/10.1001/jamanetworkopen.2023.33846

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venerdì 10 novembre 2023

...l’empatia come terapia del dolore

(immagine dal web)
 

Pubblicato il: 27 Ottobre 2023Autore: Dott.ssa Carlotta Pino

L’empatia come terapia del dolore: un’analisi delle risposte cerebrali

L’empatia si definisce come la capacità di comprendere una persona dalla sua prospettiva anziché dalla propria, di “mettersi nei panni dell’altro”, di fare esperienza indiretta delle sue emozioni, percezioni, pensieri o comportamenti. L’empatia è una qualità umana che svolge un ruolo fondamentale nella vita quotidiana, poiché non solo migliora le relazioni interpersonali, ma può anche avere un impatto notevole sulla salute e il benessere. Negli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato come l’empatia e il sostegno sociale siano due fattori fondamentali anche nella relazione fra medico e paziente. La capacità del medico di comprendere e immedesimarsi nello stato emotivo vissuto dal paziente aiuta quest’ultimo a ridurre la sensazione di dolore.

Un recente studio (2023) condotto da un gruppo di esperti guidato dal neuroscienziato Dan-Mikael Ellingsen, PhD, dell’Ospedale universitario di Oslo ha esaminato come l’atteggiamento di un medico possa influenzare la sensibilità del paziente al dolore, inclusi gli effetti sul sistema nervoso centrale, mediante la risonanza magnetica funzionale (fMRI).

Lo studio

Il gruppo di esperti ha sottoposto venti pazienti con dolore cronico a scansione cerebrale. Le già menzionate scansioni sono state condotte in due sessioni, durante le quali i pazienti sono stati esposti a stimoli alle gambe che variavano da indolori a moderatamente dolorosi. L’intensità del dolore percepita è stata registrata impiegando una scala di valori. In parallelo, anche i medici sono stati sottoposti a fMRI.

Ciò premesso, la metà dei pazienti è stata esposta agli stimoli dolorosi in solitudine, mentre l’altra metà in presenza di un medico. Quest’ultimo gruppo è stato, a sua volta, suddiviso in due sottogruppi: il primo ha avuto la possibilità di intrattenere un colloquio preliminare con il medico, fornendogli informazioni circa le sue condizioni mediche e la sua storia clinica fino a quel momento; il secondo è stato esaminato in presenza del medico, ma senza aver avuto alcun tipo di contatto in precedenza.

I risultati

Dalla ricerca condotta da Ellingsen e il suo team è emerso che i pazienti che si trovavano in solitudine durante l’esame riportavano un maggiore livello di dolore rispetto a quelli che erano accompagnati da un medico, nonostante fossero esposti a stimoli di uguale intensità.

Per quanto concerne il sottogruppo dei pazienti e medici che avevano già avuto una conversazione preliminare, i pazienti ritenevano che il medico fosse più in grado di comprendere il loro dolore e i medici erano più accurati nel valutare l’intensità del dolore percepito dai pazienti. In questi ultimi, a livello cerebrale, è stata riscontrata una maggiore attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e ventrolaterale, nonché nelle aree somatosensoriali primarie e secondarie rispetto ai pazienti che erano stati sottoposti all’esame in solitudine.

Relativamente ai medici, in confronto al gruppo di controllo, è stato riscontrato un incremento della corrispondenza tra l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e l’attività nelle aree somatosensoriali secondarie (area del cervello che reagisce al dolore) dei pazienti esposti al dolore. La correlazione dell’attività cerebrale aumentava parallelamente al livello di fiducia reciproca riportata dal medico e dal paziente (alleanza terapeutica).

I risultati di tale studio, oltre a dimostrare l’importanza dell’empatia e del supporto nella riduzione dell’intensità del dolore del paziente, fanno chiarezza sui processi cerebrali alla base della modulazione sociale del dolore nel rapporto medico e paziente.

Conclusioni

Lo studio di Ellingsen e il suo team mette in luce l’importanza di un atteggiamento empatico e di una buona comunicazione da parte del medico nei confronti del paziente per il successo di qualsiasi terapia. Citando Il Professor Winfried Meißner, MD, capo della clinica del dolore presso il Dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva dell’Ospedale Universitario di Jena in Germania, “l’interazione umana ha un impatto decisivo nel trattamento dei pazienti che soffrono di dolore (…). Questo studio dovrebbe incoraggiare gli operatori sanitari a considerare la comunicazione con la stessa serietà riservata alla somministrazione dell’analgesico corretto”.

La comunicazione empatica non può sostituire il trattamento farmacologico, ma può integrarlo e potenziarlo.

Il Prof. Meißner, a tal proposito, suggerisce a tutti i medici di trattare i pazienti con dolore in modo empatico, di porre loro domande sui sintomi, sulle loro possibili paure e sullo stress mentale correlato, prendendo seriamente in considerazione tutti questi aspetti. Questo atteggiamento mira a creare una solida alleanza terapeutica tra medico e paziente, con l’obiettivo di ridurre la percezione del dolore, migliorare le aspettative di guarigione e, di conseguenza, aumentare l’efficacia del trattamento farmacologico.

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