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(immagine dal web)
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Inauguriamo
la serie “riflessioni” con un bel articolo di Alessandro D’Avenia apparso il 4
ottobre sul Corriere della sera. L’intento di questi post, che proporremo di
tanto in tanto, è quella di proporre sguardi diversi sul dolore. Gli stessi
verranno riproposti sulla nostra pagina FB. Sono benvenuti i vostri commenti, le vostre riflessioni,
sul tema.
“91.
Algofobia
di Alessandro D'Avenia | 04 ottobre 2021
«Caro
Alessandro, non ci conosciamo. Ho 19 anni e ho letto il suo ultimo libro:
L’Appello. Mi ha aiutato a riflettere perché, come Omero Romeo, ho una malattia
genetica che col tempo mi renderà cieco. Non si sa tra quanto, ma si sa che
quasi sicuramente quello sarà il decorso. In Omero mi sono ritrovato: nella
disperazione dell’essere cieco, nello stupido pensiero di essere un “peso” per
gli altri, ma anche nella forza con cui va avanti, e per amore va oltre il suo
limite, io perlomeno ci sto provando. Sono stato provocato rispetto al modo in
cui sto “combattendo/reagendo” alla malattia, di fatto non ci stavo davanti e
non facevo niente per preservare la vista. Volevo ringraziarla perché penso che
se non fosse stato per lei non avrei cominciato un cammino per accogliere
questa mia caratteristica, o almeno ci sarei stato molto più tempo».
Queste
righe di (lo chiamerò) Andrea, ricevute qualche giorno fa, mi confermano quanto
annotò lo scrittore C.S.Lewis nel suo libro più sofferto e bello, scaturito dal
dolore per la morte della moglie: «Avevo pensato di poter descrivere uno stato,
di fare una mappa del dolore. Invece ho scoperto che il dolore non è uno stato,
ma un processo. Non gli serve una mappa ma una storia. Ogni giorno c’è qualche
novità da registrare... come una lunga valle tortuosa dove qualsiasi curva può
rivelare un paesaggio del tutto nuovo» (Diario di un dolore).
In
una cultura che rimuove il senso del dolore, questa è una sfida educativamente
urgente, perché la sofferenza più grande è la nostra resistenza alla sofferenza
stessa, che da «estranea» può invece diventare prima «messaggera», poi
«levatrice» e infine «noi stessi».
Se
è vero che il pensiero nasce dallo stupore, è altrettanto vero che scaturisce
anche dal dolore, uno smarrimento che, come la meraviglia, obbliga a fermarsi e
rispondere al suo appello (Andrea dice «provocato» e «starci davanti»).
Eppure
il dolore oggi sembra privo di senso, come mostra lo spaesamento interiore
causato dalla pandemia. Per questo il filosofo Byung-Chul Han, in La società
senza dolore, definisce la nostra cultura «algofobica»: terrorizzata dal
dolore, fino alla paralisi. Se il concetto di vita si riduce all’ambito
biologico e quindi medico, vita coincide con la salute e dolore con il male. Ma
il dolore, da una piccola ferita a un lutto, è invece ciò che fa fare
«esperienza della vita», impariamo a «sentirla» e «curarla»: quando soffriamo,
infatti, scopriamo non solo di avere ma di essere un corpo. Medicina e tecnica
promettono l’estinzione del dolore, ma ciò implica anche una certa estinzione
dell’esperienza: nella mia vita sono stati i momenti di sofferenza, mia e
altrui, a rivelarmi chi sono e in cosa credo.
Lungi
da me il «dolorismo»: i dolori, al plurale, che si possono eliminare o lenire
vanno eliminati o leniti, ma «il dolore», al singolare, è condizione dell’esser
mortali e cammino per diventare se stessi. Trattare il dolore solo come difetto
di una macchina biologica fa perdere la capacità di trasformarlo in risorsa.
Per
poterla «sfruttare» (far sì che dia frutto) serve però ampliarne il significato
oltre il biologico/medico (malattia) e restituirlo all’esistenza integrale
(vita): questo gli dà senso, non lo rende scandaloso ma raccontabile, lo
trasforma — dice Lewis — in storia. Ma può essere «accolto» come seme e
«raccolto» come frutto solo se entra nel solco interiore, diventa carne nostra.
Il
dolore è vita che vuole guarire, non sofferenza insensata: come la perla è la
cicatrice della ferita inferta all’ostrica da un predatore, il dolore è una
verità che chiede attenzione e cura. Quando un bambino si ferisce, il genitore
accarezza la parte dolente e gli racconta una storia. Il dolore invoca legami e
parole: non è solo «da contare», come abbiamo fatto nella pandemia con i dati
dei contagi, bensì «da raccontare», cioè fonte di senso e azione. Il racconto
di una cecità feconda ha permesso a un ragazzo di 19 anni, che probabilmente
diverrà cieco, di accogliere una verità rimossa per paura e mancanza di
prospettiva.
Quella
scomoda verità forse potrà farsi carne, cioè vita, e lui non sentirsi un peso,
ma avere (un) peso. Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa
ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di
originalità. Non possiamo privare i ragazzi — non a caso definiti «la
generazione fiocco di neve» per come li iper-proteggiamo da cadute, lutti e
fragilità — né del dolore né del codice simbolico per aprirsi alla sofferenza
come cammino verso il nuovo e verso l’altro, altrimenti li consegniamo alla
paralisi della paura e dell’indifferenza.
Noi
per primi siamo chiamati a dare un significato alla sofferenza: che senso ha e
ha avuto per me? Chi mi fatto diventare? Che capacità di amare mi ha dato? Non
voglio dare loro analgesici esistenziali, ma una verità fatta carne.”
Articolo
originale: clicca qui.