sabato 23 ottobre 2021

...the challenge of headaches


Sempre nell'ambito del dolore cronico, e attenti alle novità in ambito terapeutico, Filo di Speranza è orgogliosa di segnalare questo evento, aperto solo a medici e operatori sanitari, che avrà fra le principali relatrici, il nostro responsabile scientifico, dr. med. Caterina Podella, direttore responsabile del Centro Cefalee Lbs di Lugano.

Ad affiancarla, la collega zurighese, dr. med. Livia Granata, titolare dello Schmerzzentrum Granata Zurich.

Ospite d’onore della serata:

 Alexander Mauskop, MD

Direttore e fondatore del New York Headache Center

Non perdete questa occasione più unica che rara di dialogare con il massimo esperto mondiale di cefalee.

Iscrizioni da pervenire entro il 2 novembre a al numero telefonico 044-542-8966 o mandando una email a direzione@dyaswiss.ch 

Invito e programma: clicca qua.


martedì 19 ottobre 2021

…dolore cronico e lavoro: cinque strategie - 2/6

(immagine dal web)

1. Siate pronti a supportare i dipendenti che soffrono di dolore cronico ascoltando.

Quando abbiamo chiesto ai CEO suggerimenti su come aiutare i dipendenti con dolore cronico, l'ascolto e una comunicazione efficace sono state la strategia più comunemente suggerita. Tuttavia, molti dirigenti riferiscono di sentirsi a disagio o impreparati a discutere di dolore cronico e disabilità da dolore con i propri dipendenti, e anche i dipendenti stessi possono sentirsi riluttanti a parlarne a causa della paura della stigmatizzazione, della discriminazione o della perdita del lavoro. Tuttavia, la maggior parte delle volte tali conversazioni sono un inizio fondamentale per trovare soluzioni efficaci.

Raccomandiamo ai dirigenti di non esercitare pressioni sui propri dipendenti affinché condividano informazioni sul dolore cronico ponendo domande puntuali relative al dolore o chiedendo ai dipendenti di rivelare il loro dolore. Tuttavia, raccomandiamo anche di essere aperti all'ascolto e al supporto quando i dipendenti scelgono di avere tali conversazioni.

Inoltre, i dipendenti potrebbero sentirsi più a loro agio nel rivelare le loro sfide relative al dolore cronico quando semplicemente sanno che i loro dirigenti hanno a cuore la salute e la sicurezza. Ad esempio, chiedere le opinioni dei dipendenti su come migliorare la salute e la sicurezza nella tua organizzazione può essere un buon inizio. Se non sei sicuro di come gestire la situazione, puoi comunicare la tua disponibilità ad aiutare semplicemente chiedendo ai tuoi dipendenti come potresti aiutarli con le loro preoccupazioni legate al dolore.

 

venerdì 15 ottobre 2021

…dolore cronico e lavoro: cinque strategie - 1/6

(immagine dal web)

Abbiamo riscontrato come spesso la persona che soffre di dolore cronico, si senta a volte sotto stress e in condizione precarie sul posto di lavoro. Le assenze che si susseguono, via più che il dolore si intensifica. Una condizione di sofferenza che viene tenuta all’oscuro dei colleghi e dei datori di lavoro, per la paura di essere declassati o licenziati. Tutto questo influisce sul dipendente, che vede la paura di un licenziamento aumentare, e sul datore di lavoro che non capisce e ritiene di non poter più fare affidamento su quella persona, alimentando pressioni e richieste.

Ma una via d’uscita c’è.

Parlarsi. Venirsi incontro.

Questo vuol essere il primo di sei post: un lungo articolo in cui vengono suggerite cinque strategie.

Buona lettura.

 

Quando qualcuno della tua squadra soffre di dolore cronico

di Duygu Biricik Gulseren, Firat Sayin, E. Kevin Kelloway e Nick Turner

19 luglio 2021

James lo considerava come fare l'inventario, giacere immobile al buio per non innescare un episodio. I suoi primi momenti di veglia sono stati spesi cercando di valutare quanto dolore ci sarebbe stato oggi. Un altro giorno di malattia sarebbe un problema, ma lo sarebbe anche affrontare un altro giorno con un dolore debilitante.

Anche Kiara, la manager di James, stava valutando le conseguenze di un altro giorno di malattia. Un prezioso membro del team, James era diventato sempre più inaffidabile, perdendo troppo tempo e spesso non era all'altezza degli standard quando veniva al lavoro.

Il dolore cronico è comune nella popolazione attiva. Gli studi suggeriscono che, come James, fino al 40% dei lavoratori americani soffre di dolore cronico, dolore che persiste per più di tre mesi. Questo supera il numero di persone con cancro, diabete e malattie cardiache messe insieme. Una forza lavoro che invecchia, orari di lavoro prolungati e lavori impegnativi - così come il dolore causato dal long-Covid e dal trattamento limitato durante la pandemia - suggeriscono che il dolore cronico sul lavoro diventerà ancora più comune e importante da gestire in futuro.

Tuttavia, chiunque può sviluppare dolore cronico e le persone spesso lo sperimentano e lo percepiscono in modo diverso a seconda di fattori genetici, biologici, sociali e psicologici. Anche fattori ambientali, come lavori fisicamente onerosi o stress cronico, possono innescarlo. Per molti lavoratori, può essere impossibile un completo sollievo dal dolore cronico.

Di conseguenza, il dolore cronico è associato a un aumento delle assenze, decrementi nelle prestazioni lavorative, problemi di concentrazione, limiti fisici e manifestazioni di impazienza nei confronti di colleghi e clienti. Come ha spiegato un venditore che abbiamo intervistato in uno studio separato, "Il dolore mi limita perché non posso guidare per tutti i km che voglio percorrere. Non riesco a vedere i clienti che voglio vedere perché la mia schiena mi sta uccidendo. È così scomodo quando sei seduto in una posizione per un lungo periodo di tempo". Un impiegato di vendita al dettaglio ha osservato che: "Alcuni giorni ho pochissima pazienza con le persone. … Sono stanco del dolore e posso essere un po' irritabile, il che non va bene per il servizio clienti”.

Anche così, il dolore cronico è spesso una condizione invisibile perché i dipendenti di solito fanno di tutto per nasconderlo. Potrebbe anche essere una condizione instabile, con i dipendenti in forma in alcuni giorni e completamente debilitati nei giorni successivi. Di conseguenza, manager come Kiara possono sentirsi sempre più frustrati dai dipendenti che, senza una ragione apparente, non si comportano all'altezza delle aspettative.

Tutto questo può rivelarsi costoso per lavoratori e datori di lavoro. I costi annuali del dolore cronico dovuto alla perdita di produttività sono stati stimati a 216 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Quando si aggiungono i costi del trattamento, l'onere finanziario totale del dolore cronico mal gestito per l'economia americana è ancora più alto. E negli scenari peggiori, le persone che vivono con dolore cronico spesso finiscono in povertà a causa delle spese per le cure mediche e dell'incapacità di mantenere il lavoro.

Il dolore cronico è un problema di leadership

Chiaramente, il dolore cronico è un problema che colpisce sia i dipendenti che le aziende. Ma quanto sanno veramente i manager della prevalenza del dolore cronico e come aiutare i dipendenti che lo sperimentano?

Nel settembre 2020, abbiamo intervistato 500 leader aziendali americani sul dolore cronico. I risultati dimostrano che i leader aziendali americani hanno una consapevolezza e una conoscenza limitate su come gestire chi soffre di dolore cronico. Sebbene l'80% dei dirigenti abbia riconosciuto che il dolore cronico era una preoccupazione per le proprie organizzazioni, lo stesso numero (80%) non sapeva come trattare i dipendenti sofferenti e il 77% voleva sapere cosa potevano fare come leader per aiutare.

Sulla base della nostra ricerca e di ciò che già sappiamo sull'affrontare altre condizioni croniche, come i problemi di salute mentale sul posto di lavoro, abbiamo attinto a un modello di prevenzione, intervento e sistemazione basato sull'evidenza per suggerire le seguenti cinque strategie.

 

domenica 10 ottobre 2021

...riflessioni - no. 1

(immagine dal web)
 

Inauguriamo la serie “riflessioni” con un bel articolo di Alessandro D’Avenia apparso il 4 ottobre sul Corriere della sera. L’intento di questi post, che proporremo di tanto in tanto, è quella di proporre sguardi diversi sul dolore. Gli stessi verranno riproposti sulla nostra pagina FB. Sono benvenuti i vostri commenti, le vostre riflessioni, sul tema.

 

“91. Algofobia

di   Alessandro D'Avenia | 04 ottobre 2021

«Caro Alessandro, non ci conosciamo. Ho 19 anni e ho letto il suo ultimo libro: L’Appello. Mi ha aiutato a riflettere perché, come Omero Romeo, ho una malattia genetica che col tempo mi renderà cieco. Non si sa tra quanto, ma si sa che quasi sicuramente quello sarà il decorso. In Omero mi sono ritrovato: nella disperazione dell’essere cieco, nello stupido pensiero di essere un “peso” per gli altri, ma anche nella forza con cui va avanti, e per amore va oltre il suo limite, io perlomeno ci sto provando. Sono stato provocato rispetto al modo in cui sto “combattendo/reagendo” alla malattia, di fatto non ci stavo davanti e non facevo niente per preservare la vista. Volevo ringraziarla perché penso che se non fosse stato per lei non avrei cominciato un cammino per accogliere questa mia caratteristica, o almeno ci sarei stato molto più tempo».

Queste righe di (lo chiamerò) Andrea, ricevute qualche giorno fa, mi confermano quanto annotò lo scrittore C.S.Lewis nel suo libro più sofferto e bello, scaturito dal dolore per la morte della moglie: «Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa del dolore. Invece ho scoperto che il dolore non è uno stato, ma un processo. Non gli serve una mappa ma una storia. Ogni giorno c’è qualche novità da registrare... come una lunga valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio del tutto nuovo» (Diario di un dolore).

In una cultura che rimuove il senso del dolore, questa è una sfida educativamente urgente, perché la sofferenza più grande è la nostra resistenza alla sofferenza stessa, che da «estranea» può invece diventare prima «messaggera», poi «levatrice» e infine «noi stessi».

Se è vero che il pensiero nasce dallo stupore, è altrettanto vero che scaturisce anche dal dolore, uno smarrimento che, come la meraviglia, obbliga a fermarsi e rispondere al suo appello (Andrea dice «provocato» e «starci davanti»).

Eppure il dolore oggi sembra privo di senso, come mostra lo spaesamento interiore causato dalla pandemia. Per questo il filosofo Byung-Chul Han, in La società senza dolore, definisce la nostra cultura «algofobica»: terrorizzata dal dolore, fino alla paralisi. Se il concetto di vita si riduce all’ambito biologico e quindi medico, vita coincide con la salute e dolore con il male. Ma il dolore, da una piccola ferita a un lutto, è invece ciò che fa fare «esperienza della vita», impariamo a «sentirla» e «curarla»: quando soffriamo, infatti, scopriamo non solo di avere ma di essere un corpo. Medicina e tecnica promettono l’estinzione del dolore, ma ciò implica anche una certa estinzione dell’esperienza: nella mia vita sono stati i momenti di sofferenza, mia e altrui, a rivelarmi chi sono e in cosa credo.

Lungi da me il «dolorismo»: i dolori, al plurale, che si possono eliminare o lenire vanno eliminati o leniti, ma «il dolore», al singolare, è condizione dell’esser mortali e cammino per diventare se stessi. Trattare il dolore solo come difetto di una macchina biologica fa perdere la capacità di trasformarlo in risorsa.

Per poterla «sfruttare» (far sì che dia frutto) serve però ampliarne il significato oltre il biologico/medico (malattia) e restituirlo all’esistenza integrale (vita): questo gli dà senso, non lo rende scandaloso ma raccontabile, lo trasforma — dice Lewis — in storia. Ma può essere «accolto» come seme e «raccolto» come frutto solo se entra nel solco interiore, diventa carne nostra.

Il dolore è vita che vuole guarire, non sofferenza insensata: come la perla è la cicatrice della ferita inferta all’ostrica da un predatore, il dolore è una verità che chiede attenzione e cura. Quando un bambino si ferisce, il genitore accarezza la parte dolente e gli racconta una storia. Il dolore invoca legami e parole: non è solo «da contare», come abbiamo fatto nella pandemia con i dati dei contagi, bensì «da raccontare», cioè fonte di senso e azione. Il racconto di una cecità feconda ha permesso a un ragazzo di 19 anni, che probabilmente diverrà cieco, di accogliere una verità rimossa per paura e mancanza di prospettiva.

Quella scomoda verità forse potrà farsi carne, cioè vita, e lui non sentirsi un peso, ma avere (un) peso. Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di originalità. Non possiamo privare i ragazzi — non a caso definiti «la generazione fiocco di neve» per come li iper-proteggiamo da cadute, lutti e fragilità — né del dolore né del codice simbolico per aprirsi alla sofferenza come cammino verso il nuovo e verso l’altro, altrimenti li consegniamo alla paralisi della paura e dell’indifferenza.

Noi per primi siamo chiamati a dare un significato alla sofferenza: che senso ha e ha avuto per me? Chi mi fatto diventare? Che capacità di amare mi ha dato? Non voglio dare loro analgesici esistenziali, ma una verità fatta carne.”

 

Articolo originale: clicca qui.