giovedì 30 giugno 2022

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La mente può controllare e vincere il dolore fisico?

Non è tutta una questione mentale ma un nuovo approccio potrebbe offrire sollievo a chi soffre di dolore cronico.

Articolo apparso su National Geographic, scritto da Meryl Davids Landau - Pubblicato 11 apr 2022

Dan Waldrip ha sofferto, a fasi alterne, per 18 anni. Era un 27enne in salute quando una mattina, il giorno dopo aver rasato il prato, si è svegliato con un dolore alla schiena talmente lancinante da non riuscire ad alzarsi dal letto.

In seguito ha cominciato ad avere dolore a intermittenza: si sentiva bene per settimane e poi arrivavano giorni di dolore intenso o sordo.

Nel corso degli anni Waldrip ha speso migliaia di dollari in procedure chiropratiche, agopuntura, fisioterapia, antidolorifici e numerosi altri trattamenti. Una volta, durante un viaggio di lavoro in Sudafrica, per disperazione si è rivolto a un “guaritore di energia” in un mercato all’aperto. Poiché nulla sembrava avere effetto, Waldrip si è rassegnato al fatto che il suo problema alla schiena avrebbe influenzato la sua vita per sempre.

“Se mentre camminavo mi cadeva qualcosa, andavo nel panico all’idea che piegarmi avrebbe potuto peggiorare la situazione”, spiega Waldrip, che ora ha 49 anni e lavora come gestore di private equity a Luisville, in Colorado.

Tutto è cambiato, però, quando a una manifestazione di nuoto della figlia ha visto un volantino in cui si reclutavano pazienti con dolore cronico alla schiena per uno studio clinico su un nuovo trattamento, chiamato Terapia di rielaborazione del dolore, o PRT (dall’inglese Pain Reprocessing Therapy). L’obiettivo della terapia era riprogrammare il cervello di Waldrip insegnandogli che il suo dolore continuo non era dovuto a una lesione persistente del tessuto, ma a un malfunzionamento dei circuiti neurali correlati alla sua paura del dolore, ovvero ciò che gli esperti chiamano “catastrofizzazione”.

Il dolore cronico affligge circa il 20% degli americani, secondo il Centers for Disease Control and Prevention (Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie). Le conseguenze devastanti della dipendenza da analgesici oppioidi — che nel solo 2019 ha ucciso quasi 50.000 persone negli Stati Uniti — hanno spinto i ricercatori a cercare trattamenti innovativi, oltre a nuovi farmaci. Le ricerche sugli approcci alternativi si stanno “moltiplicando in modo esponenziale”, spiega Padma Gulur, direttrice del programma per la strategia di gestione del dolore presso il Duke University Health System. “Stiamo tutti cercando opzioni alternative agli oppioidi e, francamente, anche ai farmaci” per evitare effetti indesiderati e dipendenza, spiega la scienziata.

Un campo di ricerca promettente si occupa del fatto che “catastrofizzare” il dolore, ovvero pensare che non migliorerà mai, che è il peggiore di sempre o che ti rovinerà la vita, è un approccio che gioca un ruolo fondamentale rispetto alla possibilità che queste previsioni alla fine si avverino. Questo effetto è molto diverso dai commenti sbrigativi del tipo “è tutta una questione mentale” che i pazienti affetti da dolore cronico talvolta si sentono dire dai medici quando questi ultimi non riescono a individuare una causa fisica al dolore, spiega Yoni Ashar, psicologo del Weill Cornell Medical College e coautore dello studio a cui ha preso parte Waldrip. Ad alcuni ricercatori contemporanei non piace nemmeno il termine “catastrofizzazione”, poiché potrebbe implicare una sorta di colpa o responsabilità del soggetto.

“È possibile provare un dolore molto reale e debilitante senza alcun danno biomedico all’organismo, a causa dei cambiamenti nei modelli di elaborazione del dolore”, spiega Ashar. In questi casi, prosegue, “l’organo principale che causa il dolore di fatto è il cervello”. Ecco perché, per alcune persone, i trattamenti come la terapia di rielaborazione del dolore sembrano funzionare.

Durante lo studio clinico, Waldrip ha scoperto che il dolore derivante da una lesione fisica non va e viene, come invece accadeva con il suo dolore lombare. Inoltre, si è reso conto che sia la prima manifestazione del dolore che gli episodi più intensi che sono seguiti erano tutti correlati a importanti fattori di stress della sua vita. Il mese scorso, quando Waldrip è andato a sciare sulle montagne dello Utah per cinque giorni consecutivi non ha sentito neppure un dolorino.

La richiesta di alternative ai farmaci oppioidi

Il concetto per cui il dolore può peggiorare quando la persona che lo percepisce ci pensa in modo costante, esaspera il livello dell’esperienza dolorosa o si sente impotente nei confronti del dolore, viene preso in considerazione da decenni. Una scala di catastrofizzazione del dolore che valuta i livelli di questo pensiero è stata sviluppata nel 1995 ed è ancora ampiamente in uso. Eppure molti medici al di fuori dei circoli accademici non hanno familiarità con l’impatto di questo comportamento, secondo gli esperti.

Molte persone che hanno partecipato al famoso programma multidisciplinare sul dolore del Centro ambulatoriale dello Spaulding Rehabilitation Network a Medford, in Massachusetts, hanno combattuto contro il dolore cronico per anni prima di arrivare lì. Eppure, quando il personale dello Spaulding spiega che i pensieri possono avere un ruolo nel dolore, la maggior parte dei soggetti rimane sorpresa, spiega Eve Kennedy-Spaien, supervisore clinico del programma.

“Molte ricerche sono in corso, così come numerosi sono i medici che stanno imparando”, ma c’è ancora molta strada da fare prima che l’idea che i pensieri negativi sul dolore possano peggiorarlo diventi un luogo comune, afferma l’esperta.

Un numero sempre maggiore di studi documenta il fatto che un punteggio elevato sulla scala della catastrofizzazione è correlato a risultati sanitari peggiori. Uno dei primi studi, che risale al 1998, riporta che le vittime di incidenti stradali con i punteggi di catastrofizzazione più elevati presentavano dolore e disabilità più intensi (indipendentemente dai livelli di depressione o di ansia) rispetto ad altri pazienti con lesioni simili. Scoperte recenti si aggiungono a questi risultati: l’anno scorso alcuni ricercatori europei hanno stabilito che i pazienti affetti da artrite reumatoide e artrite psoriasica che valutavano il proprio livello di dolore come “molto elevato” avevano una qualità della vita peggiore rispetto ad altri affetti dalle medesime malattie, anche quando l’analisi obiettiva dei loro sintomi non supportava tale considerazione.

Lo scorso febbraio alcuni scienziati che studiano bambini colpiti da anemia falciforme hanno scoperto che la catastrofizzazione era il singolo fattore predittivo principale della possibilità che il dolore interferisse con le attività quotidiane quattro mesi dopo. Il modo in cui i bambini pensavano al proprio dolore rivestiva un ruolo più significativo di qualunque altro fattore, “più di ansia, depressione e addirittura più del livello di dolore provato inizialmente”, spiega Mallory Schneider, psicologa di una struttura privata di Roswell, in Georgia, coautrice dello studio. E nel mese successivo gli scienziati hanno riportato che la percezione dei dolori più acuti era associata in modo significativo a una maggiore catastrofizzazione del dolore stesso, nonché a sintomi depressivi, nelle donne colpite da cancro al seno.

Anche se gli esperti non hanno ancora individuato con precisione i meccanismi coinvolti, sanno che catastrofizzare influenza di fatto il cervello. Gli effetti sono stati documentati con risonanze magnetiche funzionali in cui le regioni del cervello coinvolte nella percezione e nella modulazione del dolore si illuminavano quando i pazienti avevano pensieri più catastrofizzanti.

Avere pensieri estremi quando si prova dolore è un processo naturale, che ha senso dal punto di vista biologico, spiega Kennedy-Spaien: “Il nostro cervello è programmato per identificare i pericoli e analizzare i casi peggiori per proteggerci”, spiega. Ma in alcuni casi l’allarme continua a suonare anche dopo che la lesione fisica è guarita, aggiunge.

I medici a volte esasperano la catastrofizzazione, utilizzando tecnicismi che incutono timore per descrivere la situazione al paziente, ad esempio spiegare l’artrite come “ossa contro ossa” o mostrare un’ernia del disco anche quando non provoca alcun dolore: tutti input che possono aumentare il senso di pericolo, afferma Kennedy-Spaien.

Anche il razzismo in ambito medico può avere un ruolo, fa notare Schneider, in quanto i neri sono generalmente più inclini alla catastrofizzazione rispetto ai bianchi. “È ampiamente noto che i neri vengono presi meno sul serio riguardo al dolore e, nel corso del tempo, questa esigenza di doversi spiegare in modo più deciso per farsi ascoltare può diventare un comportamento acquisito”, aggiunge.

La catastrofizzazione si può superare

I medici del dolore che riconoscono l’importanza di placare la catastrofizzazione in genere consigliano ai pazienti una terapia cognitivo-comportamentale, spiega Mark Lumley, professore di psicologia presso la Wayne State University. Questa pratica psicologica viene spesso usata per trattare depressione, disordini alimentari e anche la sindrome post-traumatica da stress. Ma la letteratura mostra che questo tipo di trattamento non è utile per il dolore, aggiunge Lumley. Una revisione del 2019 di studi sul dolore muscoloscheletrico cronico valutava l’uso della sola terapia unita all’esercizio fisico e concludeva che i vantaggi di questo approccio erano risultati ridotti quando non del tutto assenti.

Un approccio diverso dei medici potrebbe essere trascorrere più tempo parlando con i pazienti della frequenza e della gravità del loro dolore, suggerisce Schneider. La scienziata ha avviato il suo studio dopo aver ascoltato sistematicamente bambini affetti da anemia falciforme descrivere il proprio dolore in modo estremo. “Dicevano ‘è il peggiore che ho mai provato’, oppure, ‘non passa mai’. Ma quando ponevo loro altre domande, ottenevo una prospettiva più equilibrata”, spiega. I bambini realizzavano che avevano provato dolori peggiori in passato o che gli episodi precedenti erano di fatto poi scomparsi, aggiunge.

Invece di chiedere semplicemente ai pazienti di valutare il dolore su una scala da 1 a 10, ovvero il modo classico con cui viene misurato il dolore, Schneider suggerisce ai medici di indagare ulteriormente. “In questo modo i pazienti possono ottenere una visione più precisa della propria esperienza, e ciò aiuta il medico, che altrimenti può sentirsi frustrato nei confronti del paziente e quindi non trattare correttamente il suo dolore”.

Includere uno screening sulla catastrofizzazione del dolore tra le pratiche ordinarie potrebbe essere molto utile, spiega. E aggiunge: “Le strutture mediche hanno migliorato l’attività di screening per depressione e ansia, ma non altrettanto per la catastrofizzazione”.

Allo Spaulding, team composti da medici, psicologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali e altri esperti hanno tutti l’obiettivo di distogliere l’attenzione della persona dai “messaggi di pericolo” che i pazienti affetti da dolore si ripetono regolarmente. Questi messaggi spesso si focalizzano sul rischio di ulteriori lesioni fisiche o dolore estremo, se muovono il corpo in un modo che provoca fastidio.

“Aiutiamo le persone a capire la differenza tra dolore e danno”, spiega Kennedy-Spaien. Alcuni movimenti possono provocare sensazioni spiacevoli o anche dolore, ma questo non significa che viene provocato un danno, afferma. Iniziare lentamente a compiere questi movimenti è particolarmente importante, perché “quando si evitano completamente alcune attività, il cervello non riesce a ricalibrarsi”, e a capire che il movimento è sicuro e non pericoloso.

Il paziente dello Spaulding Michael Cross spiega che imparare a ridurre i propri messaggi negativi è stato provvidenziale. L’imprenditore 68enne in pensione è rimasto gravemente ferito nel 2019 cadendo su una lastra di acciaio accanto a un cassonetto all’aperto. Cross si è sottoposto a 10 interventi chirurgici importanti (e non è ancora finita) per guarire le lesioni alle ossa e ai nervi del volto e del braccio. Fino al mese scorso il dolore divorava tutti i suoi momenti di veglia e Cross temeva che non se ne sarebbe mai liberato.

I danni ai nervi lo fanno ancora sentire come se “fossi punto dalle api 24 ore su 24”, ma cambiare i messaggi del suo cervello gli sta dando speranza per la prima volta dopo l’incidente.

“Sto imparando che la mia mente può controllare i livelli di dolore acuto e ridurli”, spiega. Un metodo particolarmente efficace è sostituire le paure con immagini e messaggi positivi ‘di sicurezza’: visto che prima dell’incidente amava le barche, Cross spesso rievoca immagini di se stesso mentre pesca su una magnifica barca all’alba, un’attività che spera di poter ricominciare a svolgere in futuro.

Portare il dolore a zero

Il nuovo metodo di rielaborazione del dolore si concentra in modo ancor più diretto sulla catastrofizzazione. Lo studio a cui ha partecipato Waldrip metteva a confronto la terapia di rielaborazione del dolore con un’iniezione di soluzione salina come placebo da un lato, e dall’altro con nessuna cura ulteriore, su 150 persone affette da dolore cronico lombare di lungo corso. Durante otto sessioni da un’ora nel corso di 4 settimane, i partecipanti alla PRT hanno scoperto con quale facilità i percorsi cerebrali possono influenzare il dolore.

Come allo Spaulding, ai partecipanti veniva insegnato anche a rivalutare movimenti che ritenevano nocivi. A Waldrip, ad esempio, è stato chiesto di sedersi su una sedia scomoda e descrivere in dettaglio il dolore che ne derivava. Poiché Waldrip aveva capito che il dolore era il risultato di un falso allarme, questo era svanito ancor prima che finisse di descriverlo.

Circa il 66% dei pazienti sottoposti a terapia di rielaborazione del dolore nello studio di Ashar al termine del trattamento non sentivano più dolore (o quasi) , rispetto al 20% nel gruppo del placebo e al 10% nel gruppo che non ha ricevuto ulteriori cure. Alla visita successiva, un anno dopo, i risultati erano ancora questi. “La PRT ha l’obiettivo non solo di ridurre ma di eliminare il dolore con un trattamento psicologico”, qualcosa che nessuno pensava fosse possibile, afferma Ashar.

Nell’ambito dello studio, il cervello dei partecipanti è stato sottoposto a risonanza magnetica funzionale mentre questi pensavano al proprio dolore lombare. Al termine dello studio, tre regioni frontali del cervello coinvolte nella valutazione delle minacce hanno mostrato un’attività ridotta, a indicare che il campanello d’allarme scatenato dall’aumento del dolore era stato silenziato, spiega Ashar, il quale aggiunge che sono in corso di preparazione ulteriori sperimentazioni per testare la PRT per altri tipi di dolore e sulle minoranze.

Un altro tipo di trattamento, la terapia dell’espressione e della consapevolezza emotiva, intende svelare le emozioni non risolte che si pensa siano responsabili del dolore cronico in alcune persone, spiega Lumley della Wayne State, pioniere di questo lavoro. Che si tratti di traumi come abusi subiti nell’infanzia o pressioni legate al dover essere un bambino perfetto, le emozioni di rabbia, vergogna e altre ancora possono essere “un fattore scatenante del meccanismo di allarme del cervello” che causa dolore fisico, spiega Lumley.

La terapia dell’espressione e della consapevolezza emotiva permette alle persone affette da dolore cronico di comprendere ed esprimere quei sentimenti in sessioni di gruppo oppure individuali. Anche se la ricerca è ancora nelle fasi iniziali, uno studio di confronto di questa terapia con la terapia cognitivo-comportamentale su 50 veterani maschi affetti da dolore cronico ha rilevato che un terzo delle persone del primo gruppo ha sperimentato una riduzione del dolore di oltre la metà, mentre nessun paziente del secondo gruppo ha presentato risultati simili.

Lumley ritiene che questo nuovo approccio terapeutico possa risultare particolarmente prezioso per le persone affette da patologie come la fibriomialgia o la sindrome dell’intestino irritabile, per le quali il dolore è il sintomo primario e non il risultato di un’altra condizione. “Direi che la maggior parte delle persone in quella categoria presenta un fattore psicologico scatenante che contribuisce al dolore in modo sostanziale”, aggiunge Lumley.

Ma indipendentemente dalla tecnica utilizzata, Lumley desidera soprattutto che l’obiettivo del trattamento del dolore cronico sia fissato molto più in alto di quanto non sia ora. “Troppe cliniche del dolore dicono ‘possiamo aiutarti a convivere con il tuo dolore cronico’ mentre i medici che affrontano altre condizioni apparentemente intrattabili, come il disturbo post-traumatico da stress, cercano di eradicare del tutto la condizione”, spiega l’esperto, aggiungendo che eliminare la catastrofizzazione è una strategia fondamentale per raggiungere questo traguardo.

Gli esperti auspicano anche che la scala di catastrofizzazione del dolore venga usata non solo per valutare i pazienti che soffrono da molto tempo, ma anche per identificare in modo proattivo le persone il cui dolore nelle fasi iniziali rischia di diventare cronico.

“Alla Duke ora stiamo identificando i pazienti prima dell’intervento chirurgico…ed è fenomenale”, conclude Gulur. “Guardo il punteggio e mi rendo conto che quando si investono risorse in misure preventive e proattive per la persona, gli esiti sono molto diversi rispetto a ciò che sarebbero potuti essere.". "

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Il grassetto rosso è di FdS. 

 

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