giovedì 25 marzo 2021

...e se lo chiamassimo in altro modo

(Immagine dal web)

 “(...) ISAL è anche impegnata nel trovare il nome più appropriato per definire il dolore cronico. Il dolore è uno dei fenomeni più difficile da definire in modo esaustivo, soprattutto per la sua soggettività. Il fatto che la sua storica definizione – enunciata dalla IASP (l’International Association for the Study of Pain) nel lontano 1979 – sia stata revisionata dopo più di 40 anni, sembra esserne la riprova. Definire il dolore è ancora più difficile quando esso diventa cronico, per numerosi motivi. La IASP definisce il dolore cronico come un dolore che dura per più di tre mesi, attribuendo allo stesso la sola qualità temporale, come se la ragione del suo persistere fosse da rintracciare nel trascorrere del tempo. In realtà le ricerche hanno individuato diversi processi neurobiologici alla base della cronicizzazione del dolore come sensibilizzazione centrale, interazioni neuro-immunitarie, alterazioni gliali. Chiamare “dolore cronico” quel dolore solo perché dura più di tre mesi appare quantomeno riduttivo.

Nella relazione medico-paziente, parlare di “dolore cronico” può generare incomprensioni e fraintendimenti. Nell’opinione comune, il dolore è visto come sintomo di una malattia sottostante, e, in effetti, nella maggioranza dei casi, è davvero così: il dolore è un sintomo utile che ci segnala che qualcosa non va nel nostro organismo. Nel caso del dolore cronico, invece, la situazione è più complessa, perché esso a volte può rappresentare una malattia a sé stante. Pensiamo ad esempio alla Fibromialgia: il dolore cronico diffuso che la caratterizza non segnala nessun trauma, nessuna infezione, nessuna malattia ma, in questo caso, il dolore persiste perché qualcosa, nel complesso sistema di percezione del dolore, si è alterato.

Il termine “dolore cronico” può essere molto difficile da comprendere anche per gli stessi pazienti, perché molti di loro non credono sia possibile provare un dolore quotidiano senza una causa univoca che lo generi. Questo si è reso evidente anche nella ricerca del 2012 condotta presso l’Hospice di Rimini da cui è emerso che i pazienti con dolore cronico non oncologico non riuscivano a dare un senso al proprio dolore, contrariamente a quanto avveniva, pur nella tragedia, nel dolore da cancro, dove almeno il significato di ciò che stava accadendo spesso lo si recuperava. Parlare di “dolore cronico”, quando si spiega a un paziente cosa sta accadendo al proprio corpo, induce costantemente il rischio di innescare incomprensioni e fraintendimenti. Alcuni pazienti possono pensare che il medico non abbia capito cosa generi il dolore, altri possono semplicemente non capire e continuare la ricerca “della causa”, con la speranza che, una volta trovata, il dolore possa scomparire.

Il termine “dolore cronico” può inoltre generare incomprensioni fra medici di specialità differenti, ognuno dei quali percepisce il dolore partendo da conoscenze e competenze specifiche acquisite durante il proprio peculiare percorso di formazione professionale.

Per questi motivi, Fondazione ISAL sta portando avanti con esperti in diverse discipline (medicina, psicologia, biologia, antropologia, filosofia) una serie di ricerche per capire se il termine “dolore cronico” sia il più appropriato per definire un dolore che persiste per più di tre mesi, specie se in assenza di una causa univoca che lo possa generare. Trovare un nome che dia senso a un’esperienza come quella del dolore, così complessa e talvolta frammentata, non è solo importante ma doveroso.”

Per leggere l'intero articolo clicca  qui.

************************************************************************************


 

Nessun commento:

Posta un commento